L’81ma Mostra di Venezia è stata, anche, quella di Claude Lelouch, che al Lido ha ricevuto il Premio Cartier Glory to the Filmmaker, tenuto una masterclass e presentato (fuori concorso) il suo più recente lungometraggio, dal titolo emblematico Finalement.
Perché si tratta quasi di un testamento poetico, attraverso cui il regista (Palma d’oro e Oscar alla sceneggiatura per Un uomo, una donna, 1966) sintetizza la sua visione del mondo e omaggia alcuni suoi grandi amori, compreso quello per la settima arte. Che per lui, dice, si dovrebbe chiamare la “prima” arte, perché «in qualche modo le comprende tutte. Una sala cinematografica è il Paese più bello del mondo se il film è un bel film: in due ore fai un viaggio in tutta la gamma dei sentimenti umani. Il cinema è ciò che mi ha fatto amare le donne, il cibo, la pittura, la musica, il teatro».
È da oltre sessant’anni che dura la storia d’amore (ricambiato) di Lelouch col cinema. Che poi, è anche una storia d’amore con la vita stessa: «Io filmo come vivo», dice. E, all’età di 86 anni, è convinto che anche gli affanni e gli errori dell’esistenza possano riservarci qualcosa di positivo: «Tutto quello che ci fa male poi ci spinge a sentire il bene, ogni successo che ho conseguito l’ho avuto dopo un fallimento. Il male lo ritengo l’inventore del bene. Se una persona non soffre c’è qualcosa di sospetto. Gli ostacoli sono necessari e la vita è un po’ come andare in bicicletta, quando fatichi sogni la discesa ma quando sei in una piana ti annoi».
In Finalement, complice il viaggio che si troverà a intraprendere il personaggio al centro della storia, il filmmaker celebra poi altre sue grandi passioni, inclusa la propria terra natia: «Avrei potuto girare nei tre Paesi che amo di più, la Francia, la Spagna e l’Italia, i tre Paesi più belli del mondo, ma il protagonista doveva restare in Francia perché doveva muoversi a piedi e non essere rintracciabile». E poi, c’è la musica: «È la star di tutti i miei film, la “ingaggio” prima di tutto il resto, e attiene a quello che è la nostra parte irrazionale: la razionalità ci dice che siamo destinati a morire, invece la musica ci rende immortali in qualche modo. E poi è sempre dolce, non ferisce mai come fanno invece le parole».
Non per nulla, l’interprete principale Kad Merad, è anche un musicista. Anche se, confessa, non suona davvero la tromba nel film: «È uno strumento estremamente difficile da suonare, quindi faccio credere di saperlo suonare e Ibrahim Maalouf, che ha scritto le musiche mi ha dato qualche consiglio. Qualche anno fa a Venezia ero con un film in cui fingevo di suonare il violino, fa parte del mestiere di attore».