Festa del Cinema di Roma 2023, la recherche di Anne Parillaud e Giulio Base

Il lungo duetto del film continua sul palco dell'Auditorium

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A la recherche Giulio Base Anne Parillaud

Di recente nel Corro da te di Riccardo Milani, ritroviamo Giulio Base alla Festa del Cinema di Roma 2023 come interprete e – soprattutto – regista del À la recherche presentato nella sezione Freestyle nel quale lo vediamo affiancato dalla splendida e intensa Anne Parillaud. Un duetto che continua anche fuori dal Kammerspiel tra due protagonisti sempre più ambigui e imprevedibili, impegnati nella stesura di una importante sceneggiatura – adattamento di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust – mentre fuori imperversano gli anni ’70, nella speranza di dare una svolta alle loro vite, trovare un riscatto, approfittare di quest’ultima occasione…

Una idea – arrivata al regista torinese dal suo cosceneggiatore – che ha conquistato l’attrice francese, non troppo avvezza a questo tipo di proposte e che Tiziana Rocca (produttrice del film con la Agnus Dei, Rai Cinema e Rosebud Entertainment Picture) definisce una “scelta fortunata”. Perché “Anne ha collaborato anche al look, visto che abbiamo deciso insieme tutto, dal trucco alle pettinature – come racconta. – È una donna che conosce bene quegli anni, ha molto gusto, molto stile e ha messo molto di suo nel film“.

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Un film che nasce, dove?

Tutto viene dal mio amico e sodale Paolo Fosso che qualche anno fa mi portò un soggetto perché aveva pensato a me come attore, qualcosa di abbastanza insolito visto che negli ultimi anni nessuno mi vede solo come attore. Un soggetto del quale mi sono innamorato e che per scherzo gli ho fatto notare che mi rappresentava come uno sceneggiatore sfigato che si arrabbatta per vivere, fa dei filmetti discutibili e ha dissipato gran parte del suo talento… Ovviamente era una metafora per raccontare quel che c’è nel film e questi due personaggi, scritti insieme con l’amore che abbiamo entrambi per la dialettica. Motivo per cui abbiamo scelto il decennio degli anni ’70, che era il decennio della dialettica, una componente di quegli anni e della quale ho nostalgia. Soprattutto oggi che si tende ad assistere a un muro contro muro costante, e che si parla senza ascoltare l’altro. Da lì è nata la volontà di raccontare il confronto-scontro tra due – lei rivoluzionaria e ribelle, io conformista e di diversa estrazione, classe, cultura – che alla fine trovano conforto l’uno nell’altro.

Voleva esser un film molto politico? Perché lo è, e non solo perché si cita il PCI

Quella è la frase di un conformista, uno che si adegua; Pietro è un conservatore di animo un po’ barbaro che vota Pci perché lo fa Visconti. Ma abbiamo messo la politica nel film perché in quegli anni era nella società, e nel cinema. Sin dal titolo – che abbiamo osato lasciare, e non è solo l’incpit del romanzo di Proust – c’è la ricerca di qualcosa, oltre a essere un vocabolo purtroppo in disuso. Oggi si parla di film d’autore, di film d’essai, una volta c’era anche il film di ricerca. Come il nostro, che trovo piuttosto coraggioso. Margherita Hack diceva che “ricerca” era la parola più bella che conoscesse, e io la penso come lei. E i due personaggi, interrogandosi, ricercano un posto nella vita, nella storia e nella società.

Nel film parlate molto proprio dell’impegno di Visconti, ma tu che ne pensi?

Più di Visconti, e pensando a Godard – che adoro e che era “sceso in una fabbrica a raccontare cosa succede”, come diciamo – forse i suoi film che mi piacciono di meno sono proprio quelli più militanti, della comunità vertoviana. E mi chiedo, se Fellini fosse sceso in fabbrica, avremmo dei film più belli? Forse no. Da un regista  mi aspetto che faccia il suo film, quello è già politica, quello mi fa sognare. Se tutti si fossero impegnati soltanto nella militanza avremmo forse meno film belli. Poi, tutto è politica, e adoro registi come Ken Loach, che adoro, ma è la sua essenza, non lo fa per una presa di posizione. Secondo me un regista dovrebbe soprattutto raccontare quel che gli vibra dentro, che comunque è politica.

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La creazione in sé è un atto politico – aggiunge Anne Parillaud. – Gli artisti sono quelli che fanno domande, non devono dare risposte. Fanno in modo che chiunque cerchi un nuovo modo di pensare o di vedere le cose possa aprire la sua mente“.

Cosa deve raccontare un artista oggi per lasciare segno?

Anne Parillaud: Noi siamo in una posizione privilegiata, nella quale possiamo parlare a nome degli altri, di quel che succede. Credo che l’arte sia un modo per testimoniare un periodo – in questo caso gli anni ’70 – in ogni settore della cultura, dalla musica a tutte le espressioni artistiche che offrano una testimonianza della società. È molto importante che ci sia una discussione sul cancellare quel che è stato fatto prima di noi, e credo sia molto importante mantenerlo perché dobbiamo ricollocare l’arte nel momento in cui stata realizzata, in quanto testimonianza del modo di pensare del momento. Per vedere l’evoluzione che c’è stata. Altrimenti non sarebbe possibile.

Chi è la tua Ariane, e che cinema racconta?

Anne Parillaud: È una donna progressista, all’avanguardia, completamente libera nel suo modo di pensare. Una donna totalmente in linea con i discorsi del movimento di oggi, anche se la vediamo negli anni ’70, che mi ha attirato proprio per questo. È assolutamente imprevedibile, capace di passare da una situazione drammatica all’essere divertente, folle, artista, una personalità varia che la rende un personaggio molto ricco da rappresentare. Ma ancor più di lei, mi ha attratto l’esperimento, il modo diverso di girare che ha Giulio, un ibrido tra cinema e palcoscenico, qualcosa che io non avevo mai fatto prima. Lui gira in sequenza e la maggior parte sono dialoghi, per cui c’è un grande sforzo di memoria, qualcosa che esige che tu ti impegni di più. È stata una sfida, che mi ha spinto a superare i miei limiti, a scoprire un terreno nuovo. E con una carriera come la mia, dopo tanti film, è interessante venire sfidati e sorpresi.

 

A la recherche Giulio Base Anne Parillaud