The Artist è uno di quei film dei quali tutti dicono: «Che bello!». Quando è così bisogna diffidare o farsi trasportare dall’onda. Infatti molto del giudizio su un film è determinato dai pareri altrui. Si viene “preparati” alla visione dalle manifestazioni del gusto dei propri amici o conoscenti. Un tempo, e per qualcuno anche ora, erano i critici che, come dei nocchieri, indicavano la via. Difficile non mi piacesse un film che era stato gradito a Tullio Kezich o che aveva destato l’attenzione della rivista Cinema & Film. Ora, nel tempo dell’informazione orizzontale e frammentata, ci si orienta con il parere delle persone che si incontrano. Più vicino, che tutto è troppo lontano. E così amicizie possono infrangersi in meravigliose discussioni estetiche, e antiche stime, consolidate nel tempo, possono incrinarsi per un giudizio non condiviso. Ci sono dei film che “devono” piacere. Altrimenti sei fuori dallo spirito del tempo. Ricordo che fu così con Dillinger è morto o con Lezioni di piano. Esprimere dubbi era politicamente scorretto e collocava il malcapitato fuori dai circoli che contano.
The Artist è un film riuscito, con una idea coraggiosa: girare un’opera in bianco e nero, senza dialoghi, in un tempo di 3D e di Dolby surround. Il film si fa guardare ed è pieno di idee chapliniane. È girato bene e interpretato meglio. Lei, Bérenice Bejo, in particolare, è bellissima e molto brava. Il migliore, se non è una bestemmia, è il cane che fa sembrare Lassie una comparsa di quart’ordine. Si ride, si piange, si ha il tempo, non ascoltando il sonoro, di pensare. Come accadeva con Keaton o con Intolerance. Però quando il film è finito io ho provato un sottile imbarazzo. Che non ho confessato, per salvaguardia dell’incolumità. Una sensazione mista: come aver bevuto una dissetante gazzosa, bollicine e acqua al limone, e di essere stato costretto, emotivamente, a condividere con entusiasmo una posizione di paura, rifiuto, negazione del progresso. In definitiva del cambiamento.
Il protagonista del film è un attore che resiste ostinatamente all’avvento del sonoro, considerato la perdita di ogni forma poetica. Francesco Piccolo ha scritto cose sagge come: «In un film del genere, il ceto riflessivo, mia zia, Franzen, dovrebbero istintivamente e senza alcuna esitazione stare dalla parte dei produttori del sonoro. Sono loro che mettono in moto il progresso, inventano il nuovo, cercano strade inesplorate, danno nuove opportunità, rendono più complessa, più viva, più vicina, una forma d’arte». E Pamela Hutchinson, sul Guardian, ha fatto notare come, quasi contemporaneamente, Woody Allen e Scorsese, abbiano dedicato i loro due film Midnight in Paris e il magnifico Hugo Cabret a quel tempo della storia che ha segnato l’inizio del secolo scorso. Ma il racconto lieve di quegli anni magici si trasforma, in The Artist, in un manifesto ideologico. Pericoloso perché affascinante ed emotivamente seducente. «Il futuro è un pericolo» vuol dire che il presente è ciò che dobbiamo difendere. Ammainate le vele, siamo arrivati. Davvero questo porto è il migliore dei mondi possibili?