Moving On – Recensione del film Premio FIPRESCI al Torino Film Festival

La nostra recensione di "Moving On", primo lungometraggio Yoon Dan-bi, vincitrice a Torino 38 del Premio assegnato dalla Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica

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«Mi ha fatto pensare che, anche se viviamo in culture diverse, ci lega una lingua ufficiale che è il cinema»: così Yoon Dan-bi ha commentato il successo al Torino Film Festival, dove il suo primo lungometraggio Moving On (su MyMovies fino alla mezzanotte del 29 novembre) si è aggiudicato il Premio FIPRESCI: malgrado il timore, confessato dalla regista, che il film potesse risultare «troppo coreano». E invece è proprio vero che il cinema comunica oltre le specificità culturali, anche (e soprattutto) quando queste ultime nutrono proficuamente le storie, gli stili, le poetiche. Perché la sua è «la lingua scritta della realtà», come diceva Pasolini. E Moving On, già vincitore di quattro riconoscimenti in patria (al Busan International Film Festival), parla questa lingua, fatta di volti, sguardi, lacrime, sorrisi, corpi che si azzuffano o dormono uno accanto all’altro. Fatta di quella sostanza materiale ed emotiva che ci accomuna e che riempie le immagini di un film.

La trentenne Yoon (già regista del corto Fireworks, 2016) usa questa lingua per raccontarci una storia «piccola» (come lei stessa l’ha definita): un frammento di vita ritagliato nell’esistenza dell’adolescente Okju (Choi Jung-un), in un’estate dove lei, il fratellino e il padre si trasferiscono col furgoncino di quest’ultimo (venditore di scarpe e tessuti) a casa del nonno, silenzioso e non più in buona salute. Le tenerezze, i dissidi, i ricordi e le malinconie di più generazioni a confronto, i diversi lati di una famiglia dove le grandi forze che scandiscono l’esistenza (il tempo, l’amore, la morte) si rivelano e si misurano di giorno in giorno. Ed è, in parte, la storia di Yoon, che fa risalire l’ispirazione per il film ai tempi di una chiacchierata con gli amici di scuola, dove ognuno condivideva le storie delle rispettive famiglie: «Ascoltandole, provai un senso di sollievo, rassicurandomi sul fatto che non era solo la mia famiglia ad avere problemi».

E certo parte della delicatissima forza di Moving On sta nell’essenzialità con cui coglie e inquadra, dall’interno del suo particolare contesto socioculturale, dinamiche che possono accomunare nuclei affettivi a diversi angoli del mondo: da una lite tra fratelli alla perdita di un affetto, dal peso di un’assenza ai discorsi durante un pasto. E forse nell’anomala routine dei lockdown passati e presenti, parziali o totali, certi riflessi di quotidianità domestica riescono a guardarci ed emozionarci un po’ più in profondità del solito, come una parte di noi che abbiamo (ri)scoperto. Ma la vera poesia di un film come Moving On è altrove, cioè proprio nell’uso che la regista e sceneggiatrice fa di quella lingua trasversale chiamata cinema. Nella sobrietà di una scrittura che evita ogni enfasi drammatica, ogni scorciatoia che trasformi le verità in stereotipo. Nella discrezione e onestà di una macchina da presa che si non avvicina mai troppo ai personaggi, ma li osserva, li segue (o si lascia seguire) e li interroga con rispetto e affetto profondi, anche e soprattutto quando mostra le fragilità di ciascuno.

Così il film di Yoon riesce a non impallidire tra titoli più polemici e graffianti, più politici e destabilizzanti, visti in questo Torino Film Festival. E anzi spicca, perché nello sguardo della giovane regista c’è già la maturità di chi rievoca il (proprio) passato non per compiacersi della sua voce, ma per esercitarsi ad ascoltare, a lasciar (ri)emergere e condividere quella degli altri, dell’altro, partendo da chi è (stato) più vicino a sé. Da una casa che si riempie e poi si svuota, da un vecchio e un bambino che non sanno cosa dirsi, ma si sorridono da lontano. Dalle (belle) immagini con cui parla quella lingua davvero universale che è il cinema.

Voto: ****