«Non si sceglie mai un ruolo, si sceglie un film», dice Virginie Efira, ospite a Roma della XIV edizione di Rendez-Vous – Festival del nuovo cinema francese (con anteprime e incontri fino al 7 aprile, anche a Bologna, Milano, Napoli, Torino, Firenze).
Il lungometraggio che in questo caso l’attrice ha scelto, e presentato al fianco della regista Delphine Deloget, è Niente da perdere (Rien à perdre), già a Cannes 2023 (sezione Un Certain Regard) e dal 1° maggio nelle sale italiane per Wanted. L’attrice (Premio César col recente Riabbracciare Parigi) interpreta Sylvie, una donna impegnata a crescere da sola due figli, il piccolo Sofiane (Alexis Tonetti) e l’adolescente Jean-Jacques (Félix Lefevbre), mentre lavora di sera in una discoteca per provvedere al fabbisogno di tutti e tre. Un equilibrio che si spezza quando, mentre la madre è assente, Sophiane rimane ustionato in un incidente domestico, provocando l’intervento dei servizi sociali che affidano temporaneamente il bambino a una casa famiglia.
A partire da questa vicenda, la cineasta (al suo primo lungometraggio dopo vari documentari e corti) punta ad esplorare «come si vive una separazione all’interno di un nucleo familiare», offrendo del contesto «uno sguardo sociologico, politico in qualche modo, perché ha a che vedere col modo in cui ciascuno di noi interagisce con l’esterno e con quello che è il ruolo sociale di ciascuno di noi: il tentativo non è di dare un giudizio ma semplicemente di constatare cosa avviene nelle nostre società».
Sullo sfondo, infatti, c’è il dramma delle molte persone che per fragilità economiche, psicologiche o affettive si vedono sottratte i propri figli minori: «L’80-90 % di assegnazioni in affido», sottolinea Deloget, «sono dovuti a casi di cosiddetta defaillance, quindi di difficoltà in cui si trova un genitore». Molti di questi bambini vengono poi «reinseriti all’interno della propria famiglia, ma al termine di un percorso che può durare anche dieci anni».
Il film allora mostra, senza offrire facili soluzioni, la lotta di Sylvie per riportare a casa Sophiane e insieme le contraddizioni della protagonista e del sistema che le ruota intorno: «Ho cercato di immedesimarmi in tutti i personaggi del film», spiega la regista, «forse ci riesco di più con Sylvie, però capisco le ragioni profonde di ciascuno dei suoi due fratelli (interpretati da Arieh Worthalter e Mathieu Demy), dei figli, dei servizi sociali, ognuno ha le sue ragioni».
«Secondo me Sylvie è una madre esemplare», afferma dal canto suo Efira, «perché comunque è in grado di ascoltare i suoi figli, le loro esigenze, e di tracciare dei binari, delle indicazioni precise: mantiene in sé stessa il coraggio e la forza nonostante sia sola». E aggiunge: «Non credo ci sia un solo modo di essere madre come non credo ci sia un solo modo di essere donna, ovviamente ciascuna donna è fatta di aspetti diversi, è un soggetto immenso che può essere esplorato da tantissimi punti di vista, ed è quello che mi stimola nei ruoli che mi vengono proposti. Per esempio alla mia età è normale riflettere anche sul fatto che la maternità sia o meno così fondamentale».
L’attrice (di cui è in arrivo anche un altro intenso ruolo da protagonista ne Il coraggio di Blanche di Valérie Donzelli) ha inoltre ricordato l’importanza della visione di un classico, Qualcuno volò sul nido del cuculo, suggeritole da Deloget per la preparazione emotiva alla parte di Sylvie: «C’è in particolare una scena in cui Jack Nicholson, nel tentativo di non lasciarsi andare, tiene le mani ferme nelle tasche, perché se non si frenasse andrebbe in una direzione che non gli permetterebbe più di fermarsi. È una scena che simboleggia molto bene quello che ci si aspetta da noi nel contesto delle nostre società, nel mondo del lavoro, nell’essere madre, e a partire da quella visione ho riflettuto su una serie di situazioni, anche personali, anche a livello di quanto ci viene insegnato quando siamo giovani e ci vengono trasmesse delle idee preconcette, che ci infilano in buchi da cui poi è difficile uscire».