“DE PALMA”, “HEART OF A DOG” E “11 MINUT”: IL BELLO DI OGGI A VENEZIA 72

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Logo Ciak In MostraCIAK IN MOSTRA – IL DOCUMENTARIO SU BRIAN DE PALMA, L’AVANGUARDIA DI LAURIE ANDERSON E IL GIOCO METAFISICO DI SKOLIMOWSKI: TUTTO IL BELLO DI OGGI AL LIDO

DI MASSIMO LASTRUCCI

Brian De Palma (Ph. Piermarco Menini)
Brian De Palma (Ph. Piermarco Menini)

DE PALMA (Fuori Concorso)

LA COSA PIU’ BELLA di De Palma è la memoria di Brian De Palma. Per due ore, intervallato dai film di cui parla (suoi e dei suoi amati, soprattutto Hitchcock con La donna che visse due volte e Psycho, ma anche la Nouvelle vague francese), davanti alla macchina da presa il regista di Scarface e Gli intoccabili ripercorre la propria vita e carriera, tra riflessioni e parte dalla sua infanzia nel New Jersey con un padre chirurgo ortopedico poco presente in famiglia, per poi entrare nello specifico del cinema, dai cineclub all’università (dove studiava matematica, fisica e russo) alle prime esperienze da filmaker, per proseguire film dopo film, ora soffermandosi ora sorvolando (come l’ultimo Passion). Grande humour che non fa sconti, aneddoti spiritosissimi (scoprire De Niro o Sean Penn dal vissuto è un po’ diverso del mito). L’intelligenza dei registi Noah Baumbach e Jake Paltrow è stata quella di stare rigorosamente dietro la macchina da presa, registrando solo le risposte. Che faranno la felicità di ogni appassionato dello spettacolo e dei suoi retroscena.

Heart of a Dog Laurie Anderson
Laurie Anderson

HEART OF A DOG (Concorso)

LA COSA BELLA DI Heart of a Dog è la sua spiritualità. La musicista, performer e artista Laurie Anderson (Il suo Oh Superman è una delle canzoni culto degli ’80) elabora il lutto di due affetti scomparsi, quello della cagnetta Lolabelle e quello della madre, in forma di un lungo monologo che scandisce e accompagna l’accavallarsi di immagini e musiche (deliziose). L’avanguardia gentile della moglie di Lou Reed (che appare sulla spiaggia alla fine e canta la canzone dei titoli di coda) riflette sulla fine e sul suo mistero (“Lo scopo della morte è la liberazione dell’amore”), con l’aiuto della religione tibetana (Il libro tibetano dei morti) e consigli zen di guru (“imparate a sentirvi tristi senza realmente essere tristi”). Nobile, sincero e commovente nella sua compostezza, un pochino tedioso alla lunga, soprattutto più video arte che spettacolo strutturato in una trama. Come ha osservato uno spettatore fuori della sala: “forse per Laurie Anderson hanno sbagliato Biennale”.

 

11 minut
Una scena di “11 minut”

11 MINUT (Concorso)

LA COSA BELLA DI 11 minut è la riflessione sul tempo cinematografico. Jerzy Skolimowski è un vecchio glorioso bucaniere polacco, magistrale tra i ’60 e i ’70 (suoi sono capolavori assoluti come Walkover, 1965, Barriera, 1966, La ragazza del bagno pubblico, 1970, L’australiano, 1978), poi progressivamente allontanatosi dall’epicentro del tornado cinematografico. Comunque la sua mano sa ancora essere acida, isterica, conoscitrice delle furbizie della tensione, come mostra questo suo ultimo lavoro, contenuto nella distanza relativamente breve degli 81 minuti. Il regista racconta qui la tragica bizzaria del caso che incrocerà a Varsavia le vite di una serie di personaggi. Avanti e indietro nel concatenarsi degli avvenimenti, la cinepresa va su e giù lungo i fatali undici minuti del titolo, in gioco quasi metafisico di sconfinamenti tra la plausibilità di quel che si vede e le forme e le regole del racconto. Del resto che si tratti di una fiction-saggio ostentato, lo dimostrano le prime sequenze accumulate, tutte prese da videotelefoni, computer, video di sorveglianza e da una apparizione misteriosa nel cielo che potrebbe confondersi con un pixel bruciato (“una caccolina”) sul video di un agente.