JOHNNY DEPP: LA FINE DI UN MITO?

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Un ribelle senza speranza, un ex icona grunge determinata a non farsi ingoiare da Hollywood, un pazzo pronto a sabotare la sua carriera. Negli anni Novanta sembrava destinato a sparire tra film d’essai e scommesse sbagliate, sfasciava stanze d’hotel e infilava un flop dietro l’altro, considerato dagli Studios un pericolo, una mina vagante nonchè per tutti il prossimo martire sulla strada della celebrità, subito dopo l’amico River Phoenix. E invece alla fine aveva costretto tutti a inchinarsi a lui, e senza scendere al minimo compromesso. Dopo il colpo di mano con la saga de Pirati dei Caraibi, Johnny Depp era riuscito a ottenere un potere contrattuale senza pari a Hollywood, un traguardo niente male per un tizio che per anni aveva camminato in equilibrio sul punto di mezzo tra una follia irresponsabile e la lucida precisione di chi sa quello che fa, un attimo prima che la stabilità diventi insicurezza e l’esperienza si trasformi in rischio.

E adesso, nonostante gli ultimi flop in pellicole inutili come Mortdecai, la mancata nomination per il terribile gangster di Black Mass e di nuovo il trucco pesante per il sequel di Alice In Wonderland, ecco il nuovo capitolo del lungo romanzo del bad boy Johnny Depp, una svolta che – francamente – non aspettavamo, non da lui, non adesso: prima la notizia della morte della madre, Betty Sue – da sempre un suo punto di riferimento, con lui agli Oscar nel 2004 – poi il divorzio improvviso dalla divina Amber Heard (che sembrava la nuova Vanessa Paradis e invece non era nemmeno Kate Moss) e, infine, ecco il coup de théâtre, quello che proprio non doveva arrivare: la fotografia mandata dalla Heard a People con i segni sul volto lasciati dall’attore e l’accusa, pesantissima, di violenza domestica. 

Fine di un mito? Il problema è che negli ultimi venticinque anni – dall’apparizione in Edward mani di forbice del compare Burton in poi – Depp per chi lo ha amato è sempre stato molto più di un attore, era riuscito a diventare un modo di essere, uno stato mentale, addirittura un’idea che al cinema sottendeva un preciso stile di vita, sempre sincero e spontaneo, sempre a seguire l’istinto, che lo portasse a diventare un trans cubano per Julian Schnabel o a fare un cameo per Yvan Attal, a portare addosso gli anelli dell’American Indian Movement o degli zapatisti, perso dentro i suoi arabeschi esistenziali, attento che la sua ambizione non superasse mai il suo talento. E invece ora, a sentire gli avvocati della moglie, ritroviamo Depp intrappolato nel più tradizionale dei cliché hollywoodiani, roba che nemmeno Richard Burton e Liz Taylor, tra bottiglie di spumante spaccate in terra e lancio di telefonini, avvocati agguerriti e ordini di restrizione. «Cerco di tenere a bada i miei demoni», aveva detto in un’intervista di qualche anno fa, «a volte vinco io, a volte invece me li trovo davanti e, per forza di cose, devo farci i conti». Speriamo sia solo un brutto sogno e che il futuro di Depp non diventi come il passato di un altro suo grande punto di riferimento: Marlon Brando. In tempi desolati e desolanti come questi, abbiamo ancora bisogno dei nostri miti.