“LA GRANDE CORSA” COMPIE 50 ANNI: 10 PUNTI FORTI DEL CULT DI BLAKE EDWARDS

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Il 1 luglio, la mitica commedia di Blake Edwards La grande corsa ha compiuto 50 anni e la sua comicità slapstick non ha ancora smesso di farci ridere. Ecco perché

DI MASSIMO LASTRUCCI

La grande corsaIl 1 luglio 1965 – 50 anni fa dunque – negli Usa e nello stesso mese in Unione Sovietica presentato al Moscow Film festival, iniziò la sua avventura cinematografica La grande corsa (The Great Race), una delle commedie più celebrate del decennio, ancora oggi occasione di divertimento e piccolo ma devoto culto. Ecco in 10 punti la sua storia e le sue fortune.

Nella luminosa carriera di Blake Edwards (vero nome William Blake Crump, 1922-2010), La grande corsa si situa giusto a metà del suo decennio magico, quello che va dal 1961 al 1971, ovvero da Colazione da Tiffany a Uomini selvaggi. Con appena dietro le spalle i successi internazionali di La Pantera Rosa e Uno sparo nel buio, due cult assoluti della jet set generation, due commedie sofisticate con cast internazionali e mondani come le sue location, Edwards decise di omaggiare la comicità del vaudeville travasata poi in quei corti del muto che qualcuno in seguito definì “quelli delle torte in faccia”. Non per caso il film è dedicato “a Mr. Laurel e Mr. Hardy”, ovvero Stanlio e Ollio.

L’omaggio alle vecchie gloriose comiche non fu una sua esclusiva. Poco prima Stanley Kramer aveva fatto la stessa operazione con Questo pazzo, pazzo, pazzo mondo (1963), come assai simile per temi (la commedia, la corsa, i motori) fu invece il quasi contemporaneo Quei temerari sulle macchine volanti (1965) coproduzione di Ken Annakin (vi recitava anche Alberto Sordi).

Era comunque una scommessa azzardata. La comicità slapstick, la comica del muto, esige tempi corti. Avrebbe retto lo schema allungato e reiterato nella dimensione del super lungometraggio (2h e 40 l’edizione su schermo 2h e 26 quella in dvd)? In ogni caso, Edwards poteva contare su una serie di assi. A partire dal cast. Accanto all’amico Tony Curtis (con cui aveva già lavorato in Le avventure di mister Cory, 1957, in In licenza a Parigi e nell’ameno Operazione sottoveste, 1958), Edwards riaccostò Jack Lemmon (con cui aveva appena collaborato nello splendido I giorni del vino e delle rose, 1962). In pratica aveva riformato la formidabile coppia di A qualcuno piace caldo (c’è da dire che non era sulla carta preventivata, visto che all’inizio la star scelta e contattata per il ruolo di Leslie era Charlton Heston che rifiutò solo perché impegnato in Il tormento e l’estasi!), con al posto della Monroe l’emergente, fascinosa Natalie Wood (che per altro confessò anni dopo di non aver molto amato lavorare in La grande corsa, forse per le assillanti attenzioni che le dedicarono Lemmon e Curtis in competizione galante).

La grande corsaLa storia era costruita sulla contrapposizione quasi cartoonesca tra Il Grande Leslie, il sempre charmant e biancovestito Tony Curtis dalla dentatura scintillante (riportava la didascalia: “Degno di fiducia, leale, coraggioso, cortese”) e il cupo, malvagio, sfortunato professor Fate, nero vestito, quasi pipistrellesco e per l’occasione baffuto Jack Lemmon. Con loro, due aiutanti speciali, il buon meccanico e testardo Ezechiele/Keenan Wynn e lo stolido Carmelo/Peter Falk (in originale il suo personaggio si chiamava Maximilian Meen, fu una idea italiana di trasformarlo in un italo-americano dall’inflessione sicula – ricordate il “viva Garibbaddi!” urlato a bordo della Hannibal 8? – questo perché memori del recente suo ruolo – Joy Boy ribattezzato da noi appunto Carmelo – in Angeli con la pistola).

La storia traeva spunto da un fatto storico realmente accaduto, ovviamente manipolato e reinventato. Nel 1908 si svolse effettivamente un raid New York – Parigi (35 mila kilometri per sei vetture partecipanti che vide la vittoria, dopo numerosi conteggi tra tempo e km percorsi, dell’americana Thomas-Flyer sulla tedesca Protos). Gli sceneggiatori Edwards e Arthur A. Ross (sua la storia originale) vi aggiunsero anche una suffraggetta femminista un po’ impicciona ma incantevole colorando il raid di tanti episodi tra New York, il Far West, l’Alaska, la mitteleuropea Carpania (evidentissima e voluta la citazione di Il prigioniero di Zenda) e Parigi e dintorni.

La grande corsaSe si hanno dubbi su quale dei due personaggi sotto sotto il regista provasse più simpatia, rivedete il leggendario scontro tra torte in faccia nel castello del poco virile Principe Frederick Hoepnik (sempre Lemmon): a colpire il sino ad allora immacolato Leslie è una torta (a proposito erano tutte autentiche e prelibate fabbricazioni di pasticceria) scagliata proprio dalla comparsa Blake Edwards. Scrisse della battaglia a colpi di dolciumi il critico Philip French (che peraltro non l’aveva divertito): “Edwards prende una scena comune – una linda cucina con i suoi pasticci, ordinati in modo da sembrare la tavolozza di un pittore – e trasforma tutto ciò in un’opera d’arte. (…) la stanza dopo la lotta si mostra meno come la seduta di ripresa agli studios Keystone che come il risultato di un soddisfacente e vigoroso giorno di lavoro agli studios di Karel Appel (n.d.r.: pittore olandese, fondatore del Gruppo CoBrA, un astrattista dai colori espressivi e quasi “violenti”)” (Sight and Sound).

Tra le cose memorabili, indubbiamente le due automobili. Fu uno dei primi casi di giocattoli lanciati da un film. La Leslie Special bianca e oro e la malignamente super accessoriata Hannibal 8, non solo entusiasmarono i ragazzini, ma furono poste in un museo dove sono ammirate ancora oggi, al The Peterson Automotive Museum di Los Angeles (un’altra Leslie Special è visibile anche al Tupelo Automobile Museum a Tupelo).

La grande corsaTra gli effetti secondari di La Grande Corsa, anche quello di aver provocato la nascita di una serie a cartoni animati (del resto così debitore a Tom e Jerry e agli eroi della Warner, come avrebbe potuto evitarlo?). Da lì Hanna e Barbera presero lo spunto per la serie Wacky Races – Le corse pazze (1968-1970) con protagonisti Dick Dastardly e il cane Muttley da una parte e la candida Penelope Pitstop dall’altra.

La Grande Corsa ebbe un successo lento ma crescente (ribadito ancora oggi a ogni passaggio televisivo), sino a diventare un cult del cinema comedy. In effetti con un budget (di allora) di 12 milioni di dollari (era partito con 3 e il gonfiarsi della cifra provocò una furibonda e pericolosa lite tra regista e Jack Warner che minacciò di sostituirlo), ne incassò in patria alla prima stagione “appena” 25 milioni abbondanti. Su 5 candidature agli Oscar (musiche – di Henry Mancini e Johnny Mercer – montaggio, sonoro, fotografia) vinse solo quella per i migliori effetti sonori (di Treg Brown).

wacky_races_2La critica, mai tenera con il genere rosa, si divise, anche drasticamente: per Positif il film era “eccellente”, per il nostro serioso Cinema Nuovo era “tumultuoso e interminabile” ed Edwards era entrato con questo a far parte dei “mestieranti di Hollywood”. Fortunatamente il tempo si sarebbe preoccupato di fare ordine e rendere giustizia; il creatore dell’Ispettor Clouseau e di Hollywood Party è oggi insindacabilmente e con piena ragione ritenuto uno dei grandi della commedia tout court.