MAYES RUBEO, LA COSTUMISTA MESSICANA COL CUORE IN ITALIA

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Le belle storie, diceva Francis Scott Fitzgerald, si raccontano da sole. D’accordissimo, però un piccolo aiuto bisogna darglielo, se non altro pedinandole. È quello che ho fatto con la costumista Mayes Rubeo, che ho conosciuto a Los Angeles nel 2012 durante la promozione di John Carter di Andrew Stanton, e che proprio in questi giorni è “sugli schermi” con Warcraft – L’inizio di Duncan Jones, a tre anni da World War Z, tanti zombie e Brad Pitt. Warcraft - L'inizio

Le sue creazioni le vedremo ancora, più avanti nell’anno, nel prossimo film di Zang Yimou, The Great Wall, ora in post-produzione, e nel 2017 anche in Thor: Ragnarök di Taika Waititi, le cui riprese stanno iniziando in Australia. Per conoscere più a fondo Mayes Rubeo ho pensato d’incontrarla di nuovo a diecimila chilometri di distanza dalla prima volta, più precisamente a Trevi, in Umbria, dove ha il suo atelier. Tutto un altro mondo rispetto a Los Angeles: da una metropoli di quasi quattro milioni di persone a una cittadina di ottomilacinquecento abitanti.

Mayes, vezzeggiativo per Maria Elena, è nata nel 1962 a Città del Messico, in una famiglia molto numerosa (undici tra fratelli e sorelle). Nel 2013 è stata una delle due rappresentanti italiane nella mostra Hollywood Costume Exibition del prestigioso Victoria and Albert Museum di Londra; l’altra è stata la divina Milena Canonero, quattro Oscar (il primo nel 1976 per Barry Lyndon di Kubrick, l’ultimo nel 2015 per Grand Budapest Hotel di Wes Anderson) più cinque nomination. Organizzata da Deborah Nadoolman Landis, insegnante alla Ucla nonché costumista (The Blues Brothers, I predatori dell’arca perduta) e moglie del regista John Landis, la mostra spaziava dal cinema muto a quello digitale. E la Mayes è stata scelta proprio per rappresentare il futuro, avendo vestito due creature che in realtà non esistono: Neytiri, principessa guerriera dei Na’vi di Pandora a cui in Avatar ha dato voce e movimenti Zoe Saldana, e Tars Tarkas, marziano con quattro braccia di Barsoom a cui in John Carter ha dato vita Willem Dafoe. Avatar

Il giorno di questa intervista Mayes stava dando gli ultimi ritocchi al restauro del costume che l’indomani sarebbe partito per Londra. E intanto pensava al disegno del suo vestito per il tappeto rosso dell’inaugurazione della mostra. «Me li sono sempre fatti da sola fin da ragazza, ma era un hobby, non pensavo sarebbe diventato un lavoro». E non pensava neanche al cinema, anche se metà della sua numerossima famiglia lavora sui set. «Volevo studiare Scienze della Comunicazione e magari seguire le orme di mio padre, un fotogiornalista molto conosciuto del giornale liberale Excelsior, che scattava solo in bianco e nero. Ma avevo fatto i conti senza il ciclone Bruno».

Bruno e Mayes RubeoIl Bruno di cui parla è Bruno Rubeo, suo marito per ventotto anni, scomparso nel novembre 2011 dopo una lunga lotta contro il cancro. Si erano conosciuti per il classico appuntamento al buio, ma tre giorni dopo lui le aveva chiesto di sposarla, un mese dopo lo avevano fatto e poi erano partiti per l’Italia, dove lui collaborava con Carlo Rambaldi e in più doveva arredare la sede di Elefante Tv al Ciocco.

Bruno Rubeo era un famoso production designer, anche candidato all’Oscar nel 1989 per A spasso con Daisy di Bruce Beresford. In quel periodo era in Messico e aveva la gestione dei vermi di Dune di David Lynch. Sedici anni più di lei, divorziato con un figlio, aveva sbaragliato ogni perplessità della famiglia ultracattolica presentandosi a chiedere la sua mano e sottoponedosi senza scomporsi a un interrogatorio socioeconomico e al test della pasta cucinata apposta per “l’italiano”. «Mia madre non sapeva farla, ma Bruno ha affrontato stoicamente quel piatto di maccheroni che galleggiavano in una salsa cremosa». Da allora hanno cambiato quattordici case, perché lui non riusciva a stare fermo. Appena ne aveva ristrutturata e arredata una, già pensava alla prossima. Ho la malattia della pietra, diceva. Una delle condizioni del matrimonio era che lei si laureasse, per cui si è messa a studiare arte. Il suo mentore è stato Enrico Sabbatini (nomination all’Oscar nel 1986 per Mission), che le ha insegnato i segreti del mestiere sul set di Old gringo – Il vecchio gringo (1989) di Luis Puenzo. «Primo incarico, attaccare i bottoni sulle giacche dei Federali. Ho praticamente perso le mie impronte digitali…». Poi, durante un capodanno a casa sua a Spoleto, Bruno e Mayes si sono innamorati dell’Umbria e hanno deciso di cercare casa lì vicino, a Trevi.

ApocalyptoIl salto di qualità lei lo ha fatto con Apocalypto di Mel Gibson, per il quale ha usato artigiani che non solo non erano mai stati su un set, ma neanche in un cinema.  Ed è cominciato il suo periodo “tribale” con conseguente reazione a catena: dopo aver visto Apocalypto, James Cameron l’ha voluta per Avatar e dopo aver visto Avatar, Andrew Stanton l’ha voluta per John Carter. E lei ha portato un po’ d’Italia sul pianeta Marte, che i locali chiamano Barsoon. «Volevo una civiltà diversa dai consueti romani, macedoni, egiziani, e mi sono ricordata dei Piceni, che abitavano sull’Adriatico e sapevano lavorare i metalli, soprattutto il bronzo». Il budget di John Carter è stato il più alto, circa settecentomila dollari, mentre quelli con John Sayles sono stati di gran lunga i più economici. Per uno di questi, Casa de los babys, il preventivo già minimo di diecimila dollari è stato ridotto in corsa della metà, dopo che lei aveva già speso tremila dollari in lingerie, richiesta a gran voce dal cast tutto femminile. A quel punto l’unica soluzione è stata pregare le attrici (Rita Moreno, Daryl Hannah, Lili Taylor, Mary Steenburgen, Marcia Gay Harden, Maggie Gyllenhaal) di portarsi i loro vestiti da casa… 

Quando Mayes fa un film Trevi si trasforma in una micro Cinecittà: sarte, specialisti della pelle e dei gioielli. Pur avendo firmato titoli così importanti a Hollywood, il suo sogno,  confessa, sarebbe riuscire a lavorare finalmente in un film italiano.