SOLO CHI CADE PUÒ RISORGERE

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«Hey… a chi importava di te, fino a ieri? A nessuno»The Bleeder di Philippe Falardeau (l’autore di Monsieur Lazhar) comincia con questa battuta in esergo presa a Rocky Balboa, per chiudersi poi con una fotografia di Chuck Wepner, peso massimo bianco, grandissimo incassatore, che riuscì  a tenere testa a Muhammad Ali fino alla quindicesima ripresa e ispirò a Stallone il primo capitolo della saga pugilistica. Come a dire: cominciamo dal mito che si è creato su Chuck per mettere a fuoco il suo vero volto e tutta la polvere (anche bianchissima) in cui è caduto e da cui ha però sempre saputo rialzarsi.

Il film è molto più vicino a Toro scatenato che a Rocky: stelle e polvere e una resurrezione lentissima, come spesso avviene nella vita reale. Quasi tutto si svolge in spazi chiusi e limitati come un ring: case, corridoi d’albergo, carceri. Tutto è una frizione fra falso mito e sangue vero (come i cazzotti presi davvero dallo strepitoso Liev Schreiber, anche produttore). Una molteplicità di specchi (o di televisori) in cui Chuck vede riflesso il proprio volto senza riuscire a vedersi, provando paura. «Non ho mai avuto paura di niente in vita mia e ora ho paura di questa…» dice indicando la sua faccia, l’espressione un po’ ebete, il sorriso forzato, in tv. Un film “di cuore” su un underdog bianchissimo e stempiato, che resta vittima dell’immagine che crede di dover dare di sé, è opera essenziale, vigorosa e potente come una ballata di Bruce Springsteen. Ci ha insegnato il compianto Ali, soex avversario di Chuck: «Nella vita come sul ring non c’è niente di sbagliato nel cadere a terra. Quello che è sbagliato è rimanerci!».