Speciale Locarno: perché riscoprire Jacques Tourneur, il maestro elegante della suspense e dell’occulto

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33 lungometraggi (su un totale di 36 che ne riporta la filmografia ufficiale), più 13 corti e 3 documentari sotto l’etichetta materiali: è praticamente esaustiva la retrospettiva Jacques Tourneur che Roberto Turigliatto e Rinaldo Censi hanno organizzato per Locarno festival 70.

Ma qual è l’importanza di questo regista francese (nato a Parigi nel 1904, morto a Bergerac nel 1977, figlio d’arte: il padre era il celebre e celebrato maestro del muto Maurice) che tanta e quasi sempre felice carriera costruì a Hollywood? Perché merita una retrospettiva tutta su di lui? Se non avesse realizzato quel pugno di capolavori che ancora oggi illuminano la storia del cinema dei generi, nel fantastico (la trilogia con il produttore Val Lewton: Il bacio della pantera, 1942, Ho camminato con uno zombi, 1943, The Leopard Man, 1943 in qualche modo proseguita con La notte del demonio, 1957 ) e nel noir (il fondamentale, anzi: epocale, Le catene della colpa, 1947, senza scordare Alibi sotto la neve, 1956), parleremmo di lui “solo” come di un ottimo artigiano a suo agio specialmente tra i B-Movies di ogni sorta (“non ho mai rifiutato una sceneggiatura”), pacato e intelligente al punto comunque di scovare trovate di sceneggiatura, di regia e di costruzione della scena, con costante predisposizione autorale.

Il bacio della pantera

Ma quel pugno di capolavori che abbiamo citato ne hanno fatto qualcosa di più, un Autore con la A maiuscola, un acuto ed elegante narratore di storie assolutamente originali, di personaggi dai caratteri molto più complessi della norma, un architetto di atmosfere angosciose, di scene dalla suspence insostenibile (almeno ai tempi) senza bisogno di effetti schock, macabri o violenti. Quasi un pittore dell’ombra, a sottrarre alla visione la crudezza dell’immagine diretta, in nome dei territori psicologici dell’allusione (l’uso espressivo del silenzio), dell’ambiguità, della fantasia sollecitata: “L’orrore si costruisce sullo spirito dello spettatore, si devono suggerire le cose e in tutti i miei film non si vede mai ciò che causa l’orrore”.

Come avrebbe detto Martin Scorsese (lo riprendiamo dallo splendido libro di Francesco Ballo: Jacques Tourneur – La trilogia del fantastico, ed. Falsopiano, uno dei pochissimi testi disponibili in Italia sul cineasta): “Il primo maestro dell’esoterismo fu JT che divenne famoso per i suoi thriller soprannaturali a basso costo… I suoi erano viaggi pericolosi nello sconosciuto e a volte nell’occulto. La realtà era sempre opaca e i suoi personaggi raramente erano ciò che sembravano. Rimanevano fermi ai confini di un mondo nascosto. Dopo che Tourneur aprì il vaso di Pandora tutto cambiò. All’inizio non si notò nulla, ma una strana oscurità cominciava a serpeggiare nei film americani…un sentimento di insicurezza… come se la terra potesse franare all’improvviso”.

Praticamente il climax del noir, praticamente quello che fa de Le catene della colpa, con Robert Mitchum e Jane Greer, qualcosa di ancora oggi stupefacente, con la dark lady, il senso della colpa (appunto), il delitto, la contrapposizione morale tra metropoli e campagna.

Le catene della colpa

Per questo il colto, elegante e professionale Tourneur ha il suo posto d’onore nel pantheon dei Grandi Maestri (grazie – come spesso è successo – alla riscoperta dei suoi compatrioti nei ’60) e da questa prospettiva possiamo apprezzare e leggere criticamente anche le sue godibilissime escursioni nel cinema d’avventura (vedi i coloratissimi La leggenda dell’arciere di fuoco, 1950 e La regina dei pirati, 1951 ), nel western (Wichita, 1955, L’alba del gran giorno, 1956 o anche quello ambientato nelle Pampas Il grande gaucho, 1952), nel bellico (Tamara, figlia della steppa, 1944, La cortina del silenzio, 1951), persino col peplum all’italiana de La battaglia di Maratona (1959, in cui mise un po’ mano anche Mario Bava).

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