Ecco l’intervista a Edoardo De Angelis realizzata dal direttore Piera Detassis. Il regista ha raccontato a Ciak i segreti del suo nuovo film, Il vizio della speranza, prima della vittoria alla Festa del Cinema di Roma.
«VEDO POCHISSIMI FILM» Quando lo incontro, Edoardo De Angelis è appena sceso dall’aereo che lo riporta dal festival di Toronto a Roma. Ordina una birra per tenere a bada il jet lag e inizia a raccontare con passione, e lampi su una vita vissuta, il nuovo film Il vizio della speranza, ancora una volta conficcato nella sua terra del cuore, Castel Volturno, luogo simbolo di un’Italia dimenticata ma vivida. Parla pesando i pensieri, senza svolazzi cinefili. La risposta alla domanda sui suoi film del cuore è esemplare: «Vedo pochissimi film, moltissime volte. Il primo nella mia personale classifica è 8 1/2, il secondo Underground. Il terzo? Underground».
DOPO “INDIVISIBILI” – Fu proprio Emir Kusturica a produrgli l’opera prima Mozzarella Stories e l’affinità elettiva è evidente soprattutto nel suo ultimo film, diventato cult, Indivisibili. «Il vizio della speranza inizia proprio dove terminava il mio film precedente» fa notare il regista, sceneggiatore, produttore e soprattutto ex pallanuotista, «in quel caso c’erano due ragazzine salvate dalle acque, qui la cinepresa si alza sul fiume Volturno, sorvola le reti dei pescatori, c’è un corpo tra le maglie, c’è una ragazzina da salvare». Ci sono altre figure femminili cattive o dolenti, Marina Confalone, la madama che tiene le ragazze in schiavitù, Cristina Donadio, ferita nell’anima e nel corpo.
La protagonista è Pina Turco, sua moglie nella vita, Maria nel film, un grumo di rabbia che cammina e cammina, chiusa nel cappuccio della felpa. Come Caronte trasporta sul fiume le prostitute nigeriane incinte, schiave come lei, verso il luogo dove lasceranno il nascituro in cambio di soldi. «Maria è spinta dagli eventi, parla poco perché non ha tempo, deve solo sopravvivere e per farlo campa su gente che vende la vita, ma quando sente quella stessa vita battere dentro di lei capisce che deve smettere. Per lei la
posta più alta non è la sua disperata esistenza, che gliene importa? Il suo dolore è non sapere che fine farà la vita che porta in grembo e allora deve uscire dal buio e trovare qualcuno di cui fidarsi».
SULLE SPONDE DEL VOLTURNO – Alla fine vince il vizio di sperare, anche tra le baracche lungo il fiume dove vive la comunità nigeriana, ma resta il pugno in faccia di un film che ci sprofonda in un’Italia crudele e che non conosciamo abbastanza, nonostante le cronache. «Una scoperta anche per me, che pure non partivo da zero – ammette il regista – sono cresciuto a Caserta non a Castel Volturno, ma quando ci sono arrivato per girare il finale di Perez. sono rimasto sopraffatto: “Ma cos’è questo posto? Dove sono?” é stata la mia reazione. Il luogo è lo spettro di come potrebbe essere questo nostro paese, 25.000 abitanti e altrettanti extracomunitari, devastato perché si finge che il problema non esista, lo si cancella. Ho cominciato a esplorare le sponde del fiume Volturno l’anno scorso durante i sopralluoghi, perché non scrivo mai tutta la sceneggiatura prima, vedo i posti, torno a casa, scrivo un altro pezzo, torno in strada, aggiungo un pezzo. Lungo il fiume mi è apparso un mondo mai visto: proprio come sulla Domiziana che conosco bene, in mille deviazioni, cunicoli e rigagnoli si sono insediate forme di società anarchiche. Castel Volturno è l’immagine sintetica di una comunità di esseri umani mischiati e in fuga, la più adatta a raccontare l’Italia di oggi, una nazione permeabile a chi scappa dalla fame e dalla guerra».
Continua a leggere l’intervista sul numero di novembre di Ciak!