Vinicio Marchioni: «Debutto alla regia nel segno di Čechov»

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Vinicio Marchioni

In questa intervista esclusiva, realizzata all’Ischia Film Festival, Vinicio Marchioni ci racconta il suo nuovo “progetto Čechov” cinematografico e Drive Me Home, il film girato in Trentino Alto Adige con Marco D’Amore

«Drive Me Home è forse il film più “europeo” che abbia mai girato. Non solo per una questione linguistica – si parlano italiano, francese, inglese, fiammingo, tedesco – ma per i temi trattati come quello di un’amicizia profonda, forse amore, fra due uomini e quello del ritorno a casa». Vinicio Marchioni ci parla all’Ischia Film Festival del suo nuovo film da protagonista (insieme a Marco D’Amore), un’opera indipendente, ispirata a una storia reale, scritta e diretta da Simone Catania, che uscirà in autunno per Europictures (e che vi raccontiamo su Ciak di luglio).

«Oggi è sempre più difficile realizzare cinema indipendente in Italia, pare che in questo paese non si possa più fare un certo tipo di cinema che non sia la commedia o il cinema pop… con tutto il rispetto per il pop». Oltre a Drive Me Home, prossimamente vedremo l’attore romano anche in Cronofobia di Francesco Rizzi e nel fantasy Otzi e il mistero del tempo di Gabriele Pignotta, di cui dice: «Finalmente un film che potrò andare a vedere con i miei figli!».

Quest’estate, Marchioni è in tour teatrale con due spettacoli (Uno zio Vanja e La più lunga ora – Ricordi di Dino Campana) e sta dirigendo, insieme alla moglie, l’attrice e compagna di teatro Milena Mancini, un film-progetto ancora in divenire su Anton Čechov: «non sappiamo ancora che forma avrà, sarà un docu-film anomalo, ed è sempre difficile trovare la “strada maestra”. Come direttore della fotografia abbiamo l’ottimo “Pepsy Romanoff”, regista di clip e concerti di Vasco... (Vinicio era protagonista del videoclip Un mondo migliore, nda)».

Com’è nata l’idea per il suo film da regista – insieme a Milena Mancini – su Anton Čechov?

Nasce da una vera e propria ossessione. In occasione dello spettacolo teatrale Uno zio Vanja, ancora in scena, ho studiato tutto quello che Čechov ha scritto e tutto quello che è stato scritto su di lui…

Quando avete cominciato?

Sono almeno quattro anni che studiamo. Tutti noi siamo “figli” di Čechov, perché ha “inventato” l’uomo contemporaneo, prima di Samuel Beckett e prima della psicoanalisi. Ha parlato della solitudine, dell’amore, di cosa significhi far parte di un gruppo famigliare. C’è sempre un personaggio che arriva dall’esterno in una casa in cui vive un gruppo di persone, il personaggio arrivato da fuori distrugge quello che c’è in questa casa e se ne va…

Visto lo studio approfondito dell’opera omnia, perché il vostro progetto teatrale è partito proprio da Zio Vanja?

Credo fosse il testo che risuonava meglio dentro di me. Rileggendo Zio Vanja, avevo la sensazione che Čechov stesse parlando di me in questo paese, adesso. La piantagione di cui parla nel testo originale, che non produce più niente, mi sembrava l’Italia contemporanea… La necessità di cercare soldi per sopravvivere. Io e Milena abbiamo chiamato una drammaturga straordinaria, Letizia Russo. Ci siamo così limitati a sovrapporre alcuni elementi, temi e luoghi. Anziché ereditare una vecchia piantagione agricola piena di debiti alla fine dell’Ottocento, i nostri protagonisti ereditano con le stesse dinamiche un vecchio teatro pieno di debiti in una delle province più colpite dall’ultimo terremoto.

Siete andati in scena anche nelle città colpite dal terremoto dell’Aquila.

Sì, abbiamo portato lo spettacolo al Teatro ridotto di Aquila, siamo andati in Abruzzo, dove ci sono ancora migliaia di persone negli alberghi. È stato incredibile vedere gli occhi delle persone che hanno visto il nostro spettacolo in quei luoghi. Persone che sono passate dalla diffidenza o dall’odio iniziale (“arriva questo attore che mi fa riascoltare il suono di quel terremoto che io ho vissuto davvero e dove ho perso la vita!”) all’apprezzamento e il riconoscimento dell’amore che abbiamo messo nel realizzare questa pièce. Di Čechov colpisce anche il senso di misericordia umana, un senso di compassione, che significa “patire con”, verso l’animo umano. C’è sempre anche una sorta di sorriso, nonostante le disgrazie.

Quando ha deciso di fare un film dal progetto teatrale?

Proprio mentre eravamo in scena nel Ridotto di Aquila siamo andati a Onna e in altri paesi vicini in cui in questi nove anni non ha messo piede quasi nessuno… Ad Onna, in mezzo alle macerie, c’è un Centro della cultura che sarà costato penso 3 milioni di euro… un blocco di cemento armato, nuovo di pacca, chiuso, con un cane randagio che ci pisciava sopra… ci siamo avvicinati e dentro ci sono ancora i computer… ancora chiusi. Un ragazzo di trent’anni che ha perso i nipotini e la casa nel terremoto ci ha fatto da guida. Sembrava Zio Vanja! Per il senso di fallimento e d’immobilismo e impotenza, vita spezzata. Ci sembrava necessario realizzare un film su tutto questo.

Il suo spettacolo ha avuto anche una funzione “pedagogica” e riavvicinato molti ragazzi a Čechov?

Sicuramente, il fatto che nello spettacolo ci fossimo io e Francesco Montanari, richiamando molte persone che ci conoscevano per Romanzo criminale, ci ha permesso di fare conoscere le opere dell’autore russo anche a tanti giovani che non sapevano chi fosse. Čechov, come altri autori teatrali, ha immeritata fama di autore “noioso”, quelli che lo pensano è perché non lo conoscono davvero. È capace di una leggerezza straordinaria.

Che struttura avrà il vostro film?

Per ora stiamo cercando una linea narrativa, un’ossatura che sarà il viaggio “in direzione di Čechov”, parlare dell’autore nei “suoi” luoghi. In questo viaggio che partirà da Roma o Milano arriveremo nei luoghi čechoviani, ma anche nelle città italiane colpite dal terremoto. Ci saranno interviste a persone che hanno perso la famiglia e la casa e altre interviste ad autori che hanno studiato bene o lavorato a lungo sull’opera dell’autore russo. Per mostrare che zio Vanja non è solo un personaggio scritto da un genio, ma che siamo veramente tutti zio Vanja.

Ci saranno interviste a grandi registi che hanno lavorato su Čechov:  da Marco Bellocchio a Gabriele Salvatores …

Una delle mie paure più grandi era mettere in scena troppo me stesso, io sarò “voce narrante”, per cui mi è sembrato opportuno rivolgermi ai grandi che hanno lavorato sull’autore russo e parlare con Bellocchio, Salvatores, ma anche  Andrej Končalovskij che abbiamo contattato in questi giorni.

Quali ritiene siano stati altri momenti di svolta nella sua carriera, a parte il successo di Romanzo criminale?

Un momento di svolta è stato sicuramente 20 sigarette di Aureliano Amadei, che mi ha dato la possibilità di interpretare un ruolo in cui era obbligatorio fare un viaggio profondissimo. Quell’esperienza mi ha fatto crescere come attore cinematografico. Un altro momento di svolta è stato chiudermi in un teatrino a Roma, prima di girare la seconda serie di Romanzo criminale, e mettere in scena la vita di Dino Campana, un lavoro che continuo a portare in giro da otto anni. Quella pièce mi ha salvato la vita, altrimenti dopo Romanzo criminale sarei finito a fare solo tutte le serie televisive possibili e immaginabili su “guardie e ladri”.

Luca Barnabé