La zona d’interesse, parla il regista Jonathan Glazer

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Una giornata al lago, una festa in piscina con i bambini. Tutto molto normale. Ma di fianco alla bella villetta di questa famiglia felice c’è quella che all’apparenza potrebbe sembrare una fabbrica, con tanto di ciminiera fumante. Ma l’unica cosa che si produce in quel posto è morte. Il capo famiglia si chiama Rudolf Franz Ferdinand Höß, l’uomo che progettò e diresse Auschwitz Birkenau e che fu responsabile della morte di decine di migliaia di ebrei. La famiglia Höß viveva di fianco ai campi di sterminio, conducendo una vita normalissima, quella di un impiegato statale con la moglie casalinga e i figli che vanno a scuola.

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Jonathan Glazer, regista britannico da sempre fuori dagli schemi, basti ricordare il gangster movie Sexy Beast e l’ipnotico sci-fi Under the Skin, ha voluto raccontare questa storia ne La zona d’interesse. Selezionato in concorso al Festival di Cannes 2023, dove ha vinto un Gran premio della giuria che gli è stato un po’ stretto, il film di Glazer ha poi incominciato a mietere premi nel corso della Award Season, fino alle candidature a BAFTA e Oscar, anche come miglior film internazionale in rappresentanza del Regno Unito, dato che il film è girato completamente in tedesco.

Tratto dal romanzo omonimo dello scrittore britannico Martin Amis, La zona d’interesse ha per protagonisti una coppia di straordinari interpreti, formata da Christian Friedel e Sandra Hüller, e arriverà nelle sale italiane il 22 febbraio distribuito da I Wonder Pictures.

Abbiamo incontrato Jonathan Glazer durante la Festa del cinema di Roma, dove La zona d’interesse è stato presentato fuori concorso.

Jonathan Glazer, ha pensato all’impatto che il film avrebbe avuto sul pubblico quando ha cominciato a lavorare su La zona d’interesse?

Ci ho pensato molto, sulla base della domanda che ci siamo posti quando abbiamo deciso di lavorare su questo soggetto: com’è possibile per un essere umano comportarsi in questo modo? Per questo mi sono documentato a fondo su Höß e la sua famiglia. Erano persone normali che avevano volutamente messo da parte il loro senso di responsabilità morale per commettere questi crimini. La loro colpa, che va oltre le questioni di razza o religione, era la volontaria apatia. E questo è un fattore unicamente umano e per questo atroce.

I suoi attori mi hanno detto che non hanno mai lavorato con la libertà che hanno avuto sul set de La zona d’interesse. Cosa ha fatto per renderli così entusiasti?

Il metodo cambia a seconda del progetto, e quindi anche a seconda di quello che racconti e dei personaggi che porti in scena. Non avevo alcun desiderio di creare una drammaturgia attorno a queste figure, e quindi di girare il film con usuali convenzioni del cinema, luci, primi piani, movimenti di macchina, tutte cose che contribuiscono alla costruzione di un ambiente e di un clima. Volevo piombare nelle loro vite come se le stessi guardando dalla finestra.

Per questo ho piazzato macchine nascoste per tutto il set che hanno permesso a Christian e Sandra di non staccare mai dai personaggi, perché non c’era bisogno di interrompere una scena per fare il controcampo o un dettaglio. Tutte le camere giravano contemporaneamente da diversi punti di vista, per loro era più simile a un lavoro teatrale che cinematografico. Inoltre questa scelta mi ha permesso di evitare qualunque tipo di feticizzazione dei personaggi, che è un errore in cui spesso si è incorsi in passato nel cinema, quello di creare un’aura attorno a dei personaggi evidentemente negativi. Non era decisamente mia intenzione.

Il lavoro sul suono è straordinario, c’è un drone costante di sottofondo che si avverte più che sentire, e poi una colonna sonora di suoni indefiniti, quotidianamente tipici di una casa mischiati a un missaggio industriale. Tutto questo messo insieme crea un disagio persistente e necessario.

Volevo che il film viaggiasse su un doppio binario, anzi, per l’esattezza che fosse doppio, in modo che si potesse vedere anche chiudendo gli occhi. Tutta la parte sonora è un montaggio alternativo delle immagini e la sua pienezza nel corso di tutto il film era necessaria per infondere un orrore che non volevo trasmettere attraverso la rappresentazione visiva della violenza, sempre perché non volevo in alcun modo feticizzare gli eventi e i personaggi. L’unione tra immagini e suono è di fatto il terzo film.

È questa la maniera migliore per rappresentare la Shoa?

Non lo so, non so se esista una maniera migliore, so che ce n’è una ed è parlarne e sottolineare l’esistenza di quel luogo è fondamentale, soprattutto in questo momento in cui da più parti stanno prendendo piede revisionismo e negazionismo, anche di fronte a fatti documentati e innegabili. Quello che abbiamo cercato di fare, e che spero sia riuscito, è stato immergerci, e con noi chi guarda, nella vita dei responsabili di quanto è successo rappresentandoli in modo che fosse impossibile chiamarli mostri, ma semplicemente esseri umani, ed è questo che fa davvero paura.

Come si è avvicinato al romanzo di Martin Amis?

Ne avevo letto un estratto che era stato pubblicato in anteprima su un quotidiano, credo fosse The Observer. Una volta uscito l’ho letto, mi interessava perché usava il punto di vista del responsabile. Il romanzo è devastante, ma quello che ho preso è stato l’aspetto emotivo e spirituale del racconto. Quando ho iniziato a documentarmi per il film il romanzo l’ho messo da parte e ho iniziato a studiare, anche sugli stessi testi e documenti che aveva usato Amis per le sue ricerche, ma percorrendo un sentiero personale.

Kubrick disse che dopo Schindler’s List non si sarebbero più dovuti fare film sull’Olocausto perché Spielberg aveva girato quello definitivo. Potrebbe essere questo il film definitivo?

Spero proprio di no, anzi, spero che questo film abbia aperto una nuova porta che conduce a una stanza dove altri registi possono andare per aprire altre porte. Personalmente non sono arrivato da nessuna parte, è stata la mia curiosità intellettuale e la mia emotività a spingermi in questo processo che è stato oltretutto molto difficile da affrontare, per me come per tutte le altre persone che hanno lavorato al film, siamo stati ogni giorno a contatto con una materia terribilmente oscura ed energie negative.

Ma il fatto è che mi sono trovato a fare un film sull’Olocausto senza neanche accorgermene, a un certo punto mi ci sono trovato dentro. È stato un processo misterioso e quasi accidentale. Quello che certamente non volevo era commettere l’errore che molti fanno affrontando questo tema, che è quello di cadere nel genere. In questo senso un film molto importante è stato Il figlio di Saul di László Nemes, un film potentissimo.

A questo proposito, l’indifferenza all’orrore che c’è ne La zona d’interesse mi ha fatto venire in mente The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, il documentario in cui incontra i carnefici del regime indonesiano durante la repressione anticomunista, un milione di morti nel giro di un anno.

Hai visto benissimo, il film di Joshua è stato un punto di riferimento proprio per l’assoluta indifferenza che queste persone hanno nel ricordare e rimettere in scena le atrocità che avevano commesso. È un film straordinario.