La via dell’acqua per cambiare (ancora) il cinema. Intervista a Jon Landau

Jon Landau, produttore dei film di James Cameron dai tempi di Titanic, racconta a Ciak il nuovo Avatar, con cui il regista promette di ridisegnare nuovamente i confini del kolossal cinematografico

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«Quando il 3D è realizzato in modo corretto è come una finestra che permette di affacciarsi su un mondo, altrimenti è un mondo che esce dalla finestra dello schermo, ma se interrompi la “suspension of disbelief ”, quella sospensione dell’incredulità su cui si basa la magia cinematografica, hai perso il pubblico.Quando in sala non hai un buon effetto stereoscopico ti viene il mal di testa. Un buon 3D può rendere ancora migliore un bel film (pensa a Hugo Cabret o Vita di Pi), ma non fa diventare buono un brutto film; in compenso, se il 3D non è ben fatto, può rovinare un bel film e addirittura rendere ancor peggiore un film brutto». Jon Landau, dal 1997 produttore dei film di James Cameron, con cui ha diviso l’Oscar vinto da Titanic per il miglior film, non ha dubbi sull’importanza della tecnica stereoscopica come bonus aggiuntivo nella fruizione di un film.

Il produttore ha incontrato Ciak subito dopo la conferenza mondiale in streaming che ha tenuto in collegamento da Wellington, dove era appena arrivato dopo un tour di incontri che, in soli tre giorni, lo avevano visto passare da Los Angeles a Londra, prima di approdare in Nuova Zelanda. A sottolineare la sua adesione totale al tema portante di Avatar: La via dell’acqua (nelle nostre sale dal 14 dicembre distribuito da The Walt Disney Company Italia), Landau aveva chiuso lo streaming mondiale con questo tenero messaggio alla moglie: «Prima di salutarvi vorrei dire una cosa a Julie, che credo mi stia guardando: “Ti amo e spero di rivederti tra due giorni”».

La famiglia è il tema portante di questo secondo capitolo della saga Avatar.

Non c’è nulla di più universale della famiglia e qui al centro della narrazione c’è l’idea di famiglia intesa come la propria comunità d’appartenenza e non solo come famiglia “biologica”. I protagonisti devono rispondere a domande eterne come “A quale gruppo appartengo? Qual è il mio ruolo?”. Sono passati più di dieci anni dal primo film, Jake Sully ha scelto di vivere come un Na’vì e si è unito a Neytiri. La coppia ha messo al mondo Lo’ak e Tuktirey, ha adottato la teenager Kiri e poi ha salvato e adottato il giovane Miles “Spider” Socorro, un ragazzo umano che preferisce la vita nella foresta pluviale. Ora però la famiglia dovrà affrontare il pericolo che li segue e lasciare la casa nella foresta. Questo genera i conflitti tipici di tutti gli adolescenti, con i ragazzi figli di un padre umano e una madre Na’vi, che sono outsider in cerca della loro identità e i genitori che fanno di tutto per proteggere la famiglia.

Avatar- La via dell'acqua

A proposito del primo Avatar il vostro supervisore agli effetti speciali Joe Letteri ci aveva detto che realizzarlo, giacché la tecnologia necessaria non era ancora stata perfezionata, era stato come «gettarsi da una scogliera cercando di cucire un paracadute prima di sfracellarsi al suolo». Più di dieci anni dopo l’esperienza è stata diversa?

Molto diversa, questa volta ci siamo lanciati da un’altezza decisamente maggiore! (n.d.a.: lo dice ridendo). Nel primo film il più delle volte avevamo in scena solo due personaggi animati col performance capture, qui in ogni scena ce ne sono sempre tantissimi, poi vanno aggiunte le nuove creature di Pandora e i suoi nuovi ambienti naturali che, dalla foresta pluviale, ci hanno portato sulla costa e negli oceani. Non solo, abbiamo una scena in cui Spider in versione umana è abbracciato dai Na’vi, il che ci ha portato a dover risolvere diversi problemi di fotorealismo della ripresa, perché dovevamo miscelare l’immagine live-action di Spider con quelle degli altri generate in computer grafica. Poi abbiamo Sigourney Weaver che interpreta addirittura tre personaggi: la dottoressa Grace umana, l’avatar di Grace chiuso nel serbatoio e Kiri, sua figlia quattordicenne, la Na’vi che vediamo saltare sul serbatoio e dire: «Ciao mamma».

Lei lavora da più di vent’anni con Cameron, non dica che non si aspettava simili sfide.

Jim è un autore che ha sempre cercato di far progredire la tecnologia cinematografica, aprendo nei suoi film la strada ad altri registi. Se ricordi la scena della creatura d’acqua in CGI di The Abyss, saprai che l’aveva scritta solo perché aveva già in mente di fare Terminator 2, in cui la tecnologia sarebbe stata utilizzata per realizzare il metallo liquido di cui è costituito il T-2000. In Titanic abbiamo affollato la nave di comparse create in computer grafica e poi Peter Jackson ha sfruttato la stessa tecnica ne Il Signore degli Anelli. Queste cose mi entusiasmano e sono convinto che succederanno di nuovo.

Qui la grande novità è la performance capture subacquea, con gli attori costretti a lunghe apnee. Gli Studios non hanno avuto nulla da obiettare?

Questa volta non abbiamo avuto grossi scontri: nel primo Avatar invece avevamo dovuto lottare perché ci lasciassero girare la sequenza del volo e quella della morte di Grace, che per noi erano fondamentali. Per le scene subacquee abbiamo avuto un serbatoio con due milioni di litri d’acqua, era necessario perché le riprese subacquee fossero credibili: ci è bastato mostrare un test realizzato con gli attori appesi a dei fili davanti al green screen per dimostrare che l’oceano simulato al computer avrebbe vanificato la credibilità dell’intero film. Poi tutti sanno che Jim è un fanatico delle immersioni: questa volta ha potuto fondere la sua passione acquatica con quella per il cinema.

Avatar
Director James Cameron on set of 20th Century Studios’ AVATAR 2. Photo by Mark Fellman. © 2021 20th Century Studios. All Rights Reserved.

Voi tornate in sala, con gli occhialini 3D che erano da tempo in disuso, dopo le chiusure legate alla pandemia, che facevano profetizzare la fine del cinema. Lei come vede il futuro?

Sul New York Times ho letto un articolo che dice che le sale cinematografiche rischiano di chiudere a causa dell’aumento del prezzo dei biglietti mentre, grazie all’home theatre, lo stesso tipo di intrattenimento si può godere con un minor costo e rimanendo comodamente a casa propria. Però questo era un articolo scritto nel 1983! (n.d.a.: lo dice ridendo). Sono convinto che finché la qualità dei film rimarrà alta i cinema non rischino la chiusura. L’esperienza della sala è paragonabile a quella di un concerto dal vivo: anche da casa si può ascoltare musica, ma non è la stessa cosa. Basta pensare agli incassi straordinari di Top Gun: Maverick e Spider-Man: No Way Home per avere la conferma di come il pubblico continui a desiderare l’esperienza cinematografica.