Saint Omer, da un’ossessione al mistero

Il film vincitore del Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia 2022 è in sala dall'8 dicembre con Medusa Film

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Kayije Kagame e Guslagie Malanda, Saint Omer

L’ossessione per Saint Omer è nata da una foto pubblicata su Le Monde nel 2015. È un’immagine in bianco e nero, scattata da una telecamera di sorveglianza: una donna di colore, alla Gare du Nord, spinge una carrozzina con un bambino di razza mista tutto fasciato […] La guardo, so che è senegalese, so che abbiamo la stessa età, la conosco così bene che mi riconosco. E così inizia l’ossessione per questa donna”.

La donna in questione è Fabienne Kabou, madre accusata di infanticidio, a parlare è Alice Diop, regista di Saint Omer, film presentato in concorso all’ultima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia e vincitore del Gran Premio della Giuria, in arrivo nelle sale italiane l’8 dicembre distribuito da Medusa Film per Minerva Pictures.

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Nel 2013 Fabienne, 39 anni, depose sua figlia di quindici mesi, che dormiva, sulla spiaggia di Berck-sur-Mer, mentre la marea già saliva e l‘acqua invadeva l’arenile, e se ne andò. Due anni dopo cominciò il processo che non avrebbe dovuto stabilire se Fabienne fosse colpevole, lo era, ma perché avesse commesso un tale atto.

Saint Omer

Saint Omer trae ispirazione da questo doloroso fatto di cronaca, cha la regista Diop, al suo esordio in un lungometraggio di finzione, ha seguito prima attraverso le cronache e poi assistendo in prima persona al processo. “Ciò che ha reso questo film molto concreto è che ero ossessionata dal documentare il rituale della giustizia”, dice Diop.

Sinossi

Saint Omer

Tribunale di Saint-Omer. La scrittrice trentenne Rama assiste al processo di Laurence Coly, una giovane donna accusata di aver ucciso la figlia di 15 mesi dopo averla abbandonata sulla riva di una spiaggia del nord della Francia. Rama intende trarre dal caso una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma mentre il processo va avanti, nulla procede come previsto e la scrittrice, incinta di quattro mesi, si ritroverà a mettere in discussione ogni certezza sulla propria maternità.

Il film è sostanzialmente un mistero da scrutare, un abisso interiore in cui perdersi. Non solo la storia di una donna nera, ma, universalmente parlando, il racconto di una madre infelice e imperscrutabile. “Ritengo che sia stato necessario per me realizzarlo, per ragioni sia personali che politiche. Nel mio bisogno di raccontare la storia di queste donne, c’era il desiderio di iscrivere il loro silenzio, di riparare alla loro invisibilità. È anche uno degli obiettivi politici del film. [… ] Da quale silenzio, dal vuoto dell’esilio, dal loro esilio, dal vuoto della vita delle nostre madri, dal nulla delle loro lacrime, dal nulla della loro violenza, abbiamo cercato di comporre la nostra vita”, continua la regista.

Saint Omer

Nel film non c’è alcun giudizio, la figura di Laurence non è pietosa, ma dignitosa, composta, si esprime in un francese perfetto, come quello di qualunque donna istruita, specifica Rama, e a tratti risulta anche pedante, fin quasi arrogante. “Qualcuno di stupido e in preda a un coma etilico non avrebbe fatto quello che ho fatto. E dicono che io sia intelligente”, dice Laurence Coly nel film.

Saint Omer

Il racconto scritto da Diop con Amrita David e Zoé Galeron non tenta di portare lo spettatore dalla parte di una delle due protagoniste. Saint Omer si sviluppa attraverso la composizione della loro storia e via via approfondisce la complessità delle loro personalità. Il racconto di cronaca finisce in secondo piano rispetto al lato mitologico, tragico, psicoanalitico della narrazione. Tanto che il film non si conclude con la sentenza di giudizio. “Mi interessa ciò che investe lo spettatore nel momento dell’arringa finale”, dice la regista.

Il film è candidato per la Francia alle nomination agli Oscar internazionali.

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