«Che cosa ognuno di noi è disposto a concedere, a farsi mutilare, pur di ottenere qualcosa? Non soltanto materialmente, ma anche della nostra dignità?». È, nelle parole di Vincenzo Pirrotta, la questione al centro del primo lungometraggio diretto dal pluripremiato attore e regista teatrale, Spaccaossa, visto alle Giornate degli Autori di Venezia 79 e dal 24 novembre in sala per Luce Cinecittà, dopo un programma di anteprime in varie città d’Italia, tra cui Roma e Palermo.
Quest’ultima è anche la città di Pirrotta e il luogo dove si svolge la parabola cupissima del film, ispirata a un vero fatto di cronaca e incentrata su una banda criminale che porta avanti un business di truffe assicurative, rompendo arti a vittime che si offrono spinte da disagi economici, sociali o psicologici. «Una storia di doppia miseria», spiega il regista, «che andava raccontata: la miseria vestita di cinismo di questo gruppo di balordi e delinquenti, e quella vestita di disperazione di chi accetta di farsi spaccare le ossa per poche migliaia di euro». Tra le “vittime”, infatti, ci sono non solo indigenti ma anche individui affetti da dipendenze, come il personaggio ludopatico interpretato da Luigi Lo Cascio, oppure condizionati da quella che Pirrotta definisce una «subcultura» basata sul culto delle apparenze che il denaro alimenta.
Il film, allora, ritrae l’abisso sociale e morale del nostro presente, dove lo stesso regista si cala nel ruolo di un «uomo senza qualità», Vincenzo, componente della banda e succube dell’anziana madre (Aurora Quattrocchi). E non sembra riscattarlo nemmeno l’affetto per Luisa, ragazza tossicodipendente interpretata da Selene Caramazza: «Conoscevo la storia, ma non in maniera così dettagliata, e quando ho letto la sceneggiatura mi sono subito appassionata», ha detto l’attrice, sottolineando l’approccio «vero, assoluto, crudo» di Pirrotta al racconto. Che vede, in veste di co-sceneggiatori assieme a Ignazio Rosato e al regista, anche Salvo Ficarra e Valentino Picone (il film è prodotto dal fratello di quest’ultimo, Nicola Picone, con Attilio De Razza per Tramp Limited, alla sua prima partnership con Rai Cinema).
«Ci siamo limitati a fare quello che fanno gli sceneggiatori in questi casi, assecondare una storia così particolare», afferma Picone, aggiungendo, in merito allo stile asciutto e rigoroso di Pirrotta di fronte a un soggetto così delicato: «Da noi a Palermo c’è il termine “tascio”, che equivale al romano “coatto”: Vincenzo è stato bravo a non diventare “coatto” raccontando questa storia». Per Ficarra il fatto reale da cui si è partiti «usciva dalla cronaca stessa per diventare paradigma di un determinato tipo di mondo. Vincenzo ha saputo cogliere questo aspetto». Offrendo ai due, attualmente in sala col film La stranezza (tra i maggiori incassi italiani dell’anno), un’altra occasione di variare rispetto al repertorio della commedia e comicità che li ha resi celebri: «Ci piace spaziare, fare cose diverse», rimarca Ficarra, «e questa è una cosa diversa».
Alla riuscita del film contribuisce, tra le altre cose, la fotografia di un altro illustre palermitano, Daniele Ciprì: «Molti hanno scritto, in occasione di Venezia, che Daniele ha fotografato una Palermo livida, ma credo che la fotografia si ispiri ai personaggi, sono i personaggi ad essere lividi», riflette Ficarra. «Ho voluto che la luce fosse così algida, così cupa», dichiara Pirrotta, precisando di essersi ispirato all’effetto di offuscamento della luce solare creato dal manto dell’Addolorata durante le processioni del Venerdì Santo cui assisteva da bambino: «Mi turbava sempre, inondava di tenebre il sagrato della chiesa, era come se diventasse tutto di ghiaccio».
A proposito delle molte fonti di ispirazione per il film, Pirrotta, oltre a Pier Paolo Pasolini, cita Anna Maria Ortese, e in particolare «quella meravigliosa opera che è Il mare non bagna Napoli. Ogni racconto di questi quadri è una “discesa agli inferi”». Ma vengono in mente anche Giovanni Verga e la sua desolata umanità dominata dalla “roba”: «Non so se è un film verista, ma molte cose vere ci sono», commenta al riguardo Picone. La tensione alla denuncia sociale, inoltre, chiama in causa tra i riferimenti un maestro del nostro cinema come Francesco Rosi, a cento anni dalla nascita, e in particolare il suo capolavoro Le mani sulla città: «Ce lo fecero vedere in terza media», ricorda Pirrotta, «uscii sconvolto da quella visione, non ne compresi il significato sino in fondo, poi lo rividi a un cineforum, come se quel film mi accompagnasse, e ne compresi il senso profondo. È uno di quei pilastri, di quei numi tutelari che ti accompagnano nella tua scrittura».