Those About to Die, Roland Emmerich: «Dopo i giochi di Roma ho in mente una serie su Lawrence d’Arabia»

In Those About To Die, dal 19 luglio su Prime Video, Roland Emmerich ci porta nell’antica Roma e mette in scena i giochi più realistici e violenti di sempre. Lo abbiamo intervistato

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Those About to Die

Nel 79 a.C. Roma è la città più ricca del mondo e al centro dell’Impero Romano giunge un flusso continuo di schiavi. Panem et circenses sono l’infallibile metodo per tenere sotto controllo la popolazione romana, annoiata, irrequieta e sempre più violenta. Offrire il cibo gratuito e l’intrattenimento delle corse di carri e delle lotte di gladiatori garantisce la tranquillità della vita cittadina. La serie in 10 episodi Those About to Die, disponile su Prime Video dal 19 luglio, esplora il mondo di questi giochi, la sua sete di sangue, l’avidità, le lotte di potere e la corruzione, con le gare al Circo Massimo controllate da quattro corporazioni di Patrizi: la Blu, Rossa, Bianca e Verde. Avere una quota di queste fazioni a Roma è la cosa più preziosa e quando la plebe si fa sempre più assetata di sangue è necessario un nuovo stadio progettato appositamente per i combattimenti dei gladiatori: il Colosseo.

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Creata dallo scrittore candidato all’Oscar Robert Rodat (Il patriota, Salvate il soldato Ryan) e ispirata all’omonimo libro di Daniel P. Mannix, Those About To Die, vede Anthony Hopkins vestire la toga dell’Imperatore Vespasiano, affiancato da un cast che schiera, tra gli altri, Iwan Rheon, Tom Hughes, Sara Martins, Jóhannes Haukur Jóhannesson, Jojo Macari, Gabriella Pession, Dimitri Leonidas, Emilio Sakraya, Moe Hashim, Rupert Penry Jones. A dirigere il tutto un maestro dei disaster movies come il regista Roland Emmerich, 68 anni, che Ciak ha incontrato in esclusiva.

Emmerich, oltre alle catastrofi planetarie, lei coltiva una passione per i film storici, da Il patriota a 10.000 a. C., fino ad Anonymous, questa volta mettendo in scena l’antica Roma, sembra voler parlare dell’oggi. È così?

Sì, è proprio quella l’idea, volevamo fare uno spettacolo che fosse moderno e sportivo, anche se un po’ estremo rispetto all’oggi. L’antica Roma era il momento migliore per farlo, perché era una città ossessionata dallo sport. Ti basti pensare che allora il 30% dei loro soldi era destinato allo sport, mentre oggi quella percentuale è scesa al 5%. Quella dei giochi era un’industria enorme, avevano praticamente svuotato tutto il Nord Africa degli animali ed erano anche ossessionati dai cavalli. Quello era un mondo selvaggio, in cui potevi morire, ecco perché molti schiavi erano sfruttati come sportivi.

(Photo by: PEACOCK)

Anche oggi, mentre nel mondo divampano le guerre, si tifa per la propria squadra.

Ma è sempre stato così, penso che lo sport sia sempre stato usato come elemento politico. È stato un bene dare alle persone qualcosa cui potevano davvero dedicarsi: non dimenticare che, in quel momento, c’erano un sacco di guerre in corso tutt’intorno a Roma e un’abbondanza crescente di schiavi, il che significava che la popolazione non doveva più lavorare. Allora offrivi loro dei giochi. Poi c’era una sorta di machismo nell’assumere i conducenti di carri: li ammiravano, diventavano come i gladiatori che ammiravano e amavano i combattimenti fino all’ultimo sangue.

Lei ha diretto solo cinque dei dieci episodi di Those About to Die, come ha fatto a mantenere l’omogeneità registica?

Io sono il regista, per questo ho scelto uno dei miei amici come Marco Kreuzpaintner per affiancarmi e lui mi ha detto subito: «Questo è il tuo show, io sono qui solo per aiutarti». È stato tutto facile da gestire, ogni tanto gli dicevo di fare questo così e questo cosà, ma lui non si offendeva mai. È stato importante, perché ha accettato che io fossi il regista principale.

Lei ha realizzato film colossali, com’è stato passare agli streamer?

Mi piace davvero molto questo formato. Quando lavori per uno streamer, cedi tutti i tuoi diritti e noi lo abbiamo fatto alla grande. Abbiamo dato licenze temporanee ad Amazon e Peacock, poi torneranno a noi, così potremo fare un altro giro di licenze. È così che vedo questo business e mi piacerebbe ripetere l’esperienza, perché ho in mente una serie su Lawrence d’Arabia, dove mostrerei perché lì ci sono ancora guerre oggi, dopo più di 100 anni.

Il fatto di misurarsi con un progetto di 10 ore complessive ha cambiato il suo approccio?

È stato interessante affrontare archi narrativi più grandi dei personaggi. Nella serie c’è la parte politica, ma quella principale riguarda lo sport: abbiamo girato per 230 giorni e, se contiamo la pre-produzione, sono ormai due anni che sono impegnato in questa serie che, in corso d’opera, è diventata sempre più grande. L’importante era trovare il posto giusto dove girare: naturalmente era Roma, dove fortunatamente abbiamo avuto uno sconto fiscale molto, molto grande. Abbiamo girato a Cinecittà e Cinecittà World e gli italiani, come sai, sono artigiani incredibili: hanno fatto un lavoro fantastico.

Da Ben-Hur a Il Gladiatore c’è una ricca filmografia sull’antica Roma, si è posto il problema di differenziarsi da simili precedenti?

In realtà la mia visione è molto diversa: è concentrata sui giochi, perché lo sport era un elemento molto, molto importante a quel tempo per i cittadini romani. Infatti, se erano soldati non stavano a Roma, mentre se erano a Roma non avevano nulla da fare, perché il lavoro lo facevano gli schiavi, quindi avevano molto tempo libero, che doveva essere occupato. Così hanno messo in scena giochi enormi e tutti gli sportivi erano per lo più schiavi, quindi potevano morire senza problemi: un modo molto, molto interessante di vedere lo sport.

Iwan Rheon in una scena di Those About to Die

Quindi la serie è più vicina a Rollerball che a Ben-Hur?

Sì, certo che sì, noi volevamo ricostruire quella realtà, cosa accadeva realmente. Come fossero i loro spogliatoi, perché dovevano pur vestirsi da qualche parte e dove potevano allenarsi, visto che dovevano farlo ogni giorno.

Come è stata la gestione degli effetti speciali?

Ho girato il 45% dello show usando il Volume (N.d’A.: è un set circondato da un video-wall circolare ad alta definizione che proietta immagini digitali “renderizzate” in tempo reale). All’inizio abbiamo avuto molti problemi con il tracking della proiezione, ma una volta risolti è stato meraviglioso: potevo muovere la telecamera e lo sfondo scorreva allo stesso modo.

Era la prima volta che usava il Volume?

Sì e lo trovo stupendo: non solo puoi portare qualunque location sul set, il bello è che fermi anche la luce. Quando scegli un certo paesaggio la luce non cambia molto in un minuto o due e, una volta inserito il filmato nel Volume, hai fissato quel momento nel tempo per sempre e giri una scena che può durare quanto vuoi. Questo ci libera da quella che chiamo “l’ora tragica”, quel momento in esterni, al mattino o alla sera, in cui sei costretto a girare molto velocemente, con quattro, o cinque cineprese, sperando che tutto funzioni prima che cambi la luce. Ora posso avere i cieli e la luce che voglio, quando voglio: siamo andati in Marocco e per dieci giorni abbiamo girato solo paesaggi, è stato fantastico.

Ma è vero che è di nuovo al lavoro su Stargate?

No e non capisco perché su IMDB mi abbiano avvicinato a quel progetto. Io adesso posso candidarmi e naturalmente sto già lavorando ad una seconda stagione Those About To Die, poi sono impegnato con Anthony McCarten, scrittore e sceneggiatore di La teoria del tutto, Bohemian Rhapsody, L’ora più buia e I due papi, sul progetto dedicato Lawrence d’Arabia.