Brighton 4th – La recensione del film di Levan Koguashvili

Pluripremiato al Tribeca Film Festival, il nuovo lungometraggio del regista georgiano racconta il viaggio di un padre ed ex lottatore da Tbilisi a New York per aiutare il figlio.

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Invisible Carpet distribuisce in Italia Brighton 4th, candidato per la Georgia agli Oscar e vincitore al Tribeca 2021 nelle categorie Miglior film internazionale, sceneggiatura e attore protagonista. Il nostro consiglio è di ritagliarsi poco più di un’ora e mezza e vederlo, perché è uno di quei titoli che in punta di piedi entrano in una stagione cinematografica e la arricchiscono, ricordandoci quanto la settima arte sia in grado di illuminare contesti ignorati dai più e di tradurre spunti apparentemente familiari in storie inattese.

Quella del film di Levan Koguashvili (che dopo lavori come Street Days e Blind Dates prosegue uno dei più interessanti percorsi del cinema georgiano contemporaneo) potrebbe far pensare, sulla carta, al Wrestler di Darren Aronofsky: anche qui infatti c’è un padre ed ex lottatore, l’ormai anziano Kakhi, che cerca di ricongiungersi con un pezzo della sua famiglia. Ovvero il figlio Soso, trasferitosi da anni a New York per studiare medicina, in realtà impantanatosi fra gioco d’azzardo, un matrimonio da combinare per ottenere la green card e i debiti contratti con un piccolo malavitoso locale.

Ma qui, a ben vedere, ci troviamo più in una commedia sociale dolceamara, tra lo sguardo umanista di Ken Loach (lo sceneggiatore Boris Frumin, ormai abituale collaboratore del regista Koguashvili, è un po’ il suo Paul Laverty) e l’umorismo straniante di Aki Kaurismäki, mentre assistiamo al viaggio di Kakhi da Tbilisi a Brooklyn per far visita a Soso, trovando ospitalità nello stesso pensionato dove abitano altri immigrati dall’ex URSS, e scoprendo che forse il suo passato da campione olimpionico sul ring potrebbe rivelarsi inaspettatamente utile.

Anche questi possibili riferimenti cinematografici però non esauriscono l’esperienza di Brighton 4th, somigliando questo prima di tutto a sé stesso, o meglio al quartiere da cui prende il titolo e che è il vero protagonista della vicenda. Ce lo descrive bene lo stesso Koguashvili: «Brighton Beach è un quartiere di Brooklyn abitato principalmente dagli immigrati dell’ex URSS. È un posto dove si può facilmente sopravvivere senza parlare inglese poiché i messaggi nella zona sono principalmente in russo e nelle strade si parla più comunemente russo, georgiano o armeno che inglese».

Ed è «spesso la prima tappa in America per le persone che sono appena arrivate dal mondo post-sovietico. È un luogo in cui si abituano ad essere immigrati, dove fanno i primi passi nella “vera America” di New York. Per molti, l’America – la terra delle opportunità – inizia a Brighton Beach e finisce a Brighton Beach, perché non possono lasciare questo posto». In effetti sembra quasi di non lasciare mai la Georgia della prima parte di film, anche perché lo stesso nitore mesto, di una quotidianità gravata dal cielo grigio della precarietà economica, si mantiene nella fotografia di Phedon Papamichael (BAFTA con Ford v Ferrari e Nebraska, candidato all’Oscar per quest’ultimo e Il processo ai Chicago 7).

Così per le musiche che attraversano Brighton 4th come un lamento lirico e malinconico, legato a un’identità sospesa tra una terra lasciata indietro e un’altra che non ti ha mai accolto davvero. Ma è anche il canto di una comunità che malgrado tutto si scopre e lascia scoprire solidale, nello sguardo apertamente corale del cineasta (il cui cast annovera molti attori non professionisti e residenti del posto). Allargandosi dalla taciturna e pacata umanità di Kakhi (ben restituita da Levan Tediashvili, realmente campione di Wrestling alle Olimpiadi nel 1972 e nel 1976) all’intero microcosmo di donne e uomini, vecchi e giovani, genitori e figli, capace di testimoniarci senza clamori la dignità e la forza che lo tengono vivo.

RASSEGNA PANORAMICA
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