Bohemian Rhapsody: il mito di Freddie Mercury rischia l’ “effetto santino”

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bohemian rhapsody in rosso

Gran Bretagna/Usa, 2018 Regia Dexter Fletcher, Bryan Singer Interpreti Rami Malek, Mike Myers, Aidan Gillen, Tom Hollander, Joseph Mazzello, Lucy Boynton, Allen Leech, Michelle Duncan, Aaron McCusker, Max Bennett, Gwilym Lee, Ben Hardy Distribuzione 20th Century Fox Durata 1h e 56′

Al cinema dal 29 novembre 2018

LA STORIA – Migrante a 18 anni da Zanzibar a Londra con la famiglia indiana di religione parsi, Farroukh Bulsara sembra niente più di uno sfigato studente con la bocca strana (“sono nato con quattro incisivi, più estensione vocale”) quando si presenta ai membri degli Smile (così si chiamavano) rimasti senza cantante e offrendosi di sostituirlo. Insieme, lui che si ribattezza Freddie Mercury e gli altri tre (Taylor, Deacon – che non è stato in realtà il primo bassista della band – e May), si daranno il nome di Queen, iniziando una folgorante carriera da Olimpo del rock. Col tempo, Mercury capisce meglio il suo orientamento sessuale, lasciando la pur amata Mary Austin (“non combinerai mai niente fingendo di essere quello che noi sei”) per svariate relazioni gay.

Grande creatività, grandi successi, ma anche grande egocentrismo ed eccentricità: la star litigherà e si separerà dagli altri tre per precipitare in un vortice di solitudine e delirio. Già malato di Aids, metterà (sul finire del film) ordine alla sua vita ricongiungendosi al gruppo, legandosi al vero amore Jim Hutton e presentandosi ancora carismatico e sfolgorante (“non potrei stonare neanche se volessi”) al concerto benefico del Live Aid a Wembley nel 1985.

 

L’OPINIONE – Allora facciamo così; per i fan che più fan non si può della star, il film va bene, forse benissimo: una storia che segue tutta la via crucis dell’eroe rock dalle stalle alle stelle al martirio (con molti fatti e date aggiustate!), con giusto spazio ai brani che a ritrovarli ora enfatizzati sullo schermo evidenziano un pathos rock che allora ci era pure sfuggito (colpa nostra). Agli altri, smagati, disinteressati, semplici spettatori, il film rivela tutte le magagne, con quel buonismo assolutorio da melassa indifferenziata che stucca alquanto (i lati disdicevoli di una star nevrotica appaiono ovattati nel mito della voce inimitabile e del sacrifico dell’artista), insomma un santino!

Tutti sono bravi ragazzi che si vogliono bene tranne qualche manager troppo infido o troppo bottegaio (vedi Ray Foster – personaggio di finzione che rimanda al vero Roy Featherstone –   interpretato da un truccatissimo Mike Myers che rifiuta l’eccessivo minutaggio di Bohemian Rhapsody e la commistione con la musica classica, lui che al muro ha appesi dischi d’oro dei Pink Floyd!). D’altronde è stato un progetto pasticciato dall’inizio e riscritto più volte, da non poter non scricchiolare. Bryan Singer (I soliti sospetti e la saga degli X Men!) sostituito durante le riprese da Dexter Fletcher e poi nuovamente subentrato, comunque ha il mestiere dalla sua. Negli scomodissimi panni da indossare (per chiunque) di Mercury, Rami Malek (Una notte al museo, ma soprattutto il televisivo Mr. Robot) alle sue occhiaie aggiunge un trucco-protesi alla bocca (che si siano ispirati a quello che aveva Peter Sellers travestito da cinese in La vendetta della Pantera rosa?), ma a dispetto della abnegazione e delle doti recitative che possiede, ha un fisico troppo mingherlino rispetto al palestrato Freddie. Da quel punto di vista era meglio forse l’inizialmente interpellato Sacha Baron Cohen, accantonato poi perché troppo noto, caratterizzante e fuorviante.