Corpus Christi – La recensione

In sala dal 6 maggio Corpus Christi, di Jan Komasa (candidato all’Oscar 2020): parabola di un anomalo e “scandaloso” sacerdote, e di un’umanità divisa tra colpa e redenzione

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Dal 6 maggio nelle sale italiane c’è Corpus Christi (distribuito da Wanted Cinema), terzo lungometraggio del polacco Jan Komasa (dopo Suicide Room e Warsaw ’44), visto in anteprima a Venezia 76 all’interno delle Giornate degli Autori e candidato, tra le altre cose, come miglior film internazionale agli Oscar 2020.

La storia, che lo sceneggiatore Mateusz Pacewitz ha tratto da una vicenda realmente accaduta, è quella del ventenne Daniel (Bartosz Bielenia), uscito dal riformatorio (dove serviva messa come chierichetto) e trasferitosi in un piccolo paese fuori Varsavia per trovare lavoro in una segheria. Ma, una volta giunto a destinazione, il giovane decide di fingersi prete, approfittando anche del temporaneo allontanamento del parroco locale: e scoprendo così un’eterodossa ma tanto più autentica vocazione pastorale, che destabilizza il microcosmo della comunità di fedeli dove ristagnano ipocrisie, pregiudizi e rancori.

Il cinema che si confronta (senza paura di scandalizzare) con la religione ci ha spesso regalato grandi pagine della settima arte, dai classici di Dreyer e Bresson alle rivisitazioni proficuamente eretiche di autori come Pasolini, Ferrara, Scorsese. Sembra uscito da un film di questi ultimi il protagonista di Corpus Christi, ex “ragazzo di vita” dei nostri tempi e di una Polonia in profonda crisi d’identità, come ci ha ben mostrato il suo miglior cinema recente (pensiamo, ancora in tema a  suo modo “religioso”, all’Orso d’argento Un’altra vita – Mug, di Malgorzata Szumowska). L’anima complessa e il travagliato percorso di Daniel, più che esprimibili a parole (in un film dove i silenzi risultano non meno importanti di queste), sono scritti nella carne: nei tatuaggi nascosti sotto la tonaca e nel volto imberbe da bambino diventato anzitempo adulto.

Ed è proprio un’esistenza vissuta agli antipodi di una formazione religiosa ufficiale, tra la violenza della strada e degli istituti, ai margini della società benpensante e delle sue regole, a renderlo per contrasto un cristiano molto più “puro”, nei suoi tormenti e nei suoi peccati, di tanti riconosciuti uomini di chiesa. È grazie e attorno a lui che si rivelano ed entrano in crisi le contraddizioni dell’umanità che lo circonda, oppressa da solitudini e incomunicabilità, (ancora) affetta e afflitta da piaghe ancestrali come la ricerca di un capro espiatorio o la strumentalizzazione della religione da parte del potere politico.

Una parabola intensa e sofferta, che prima ancora del cinema ricorda le anime letterarie di Dostoevskij, con i loro laceranti contrasti, le loro (ri)cadute e la loro tensione, spesso disperata, a una possibile redenzione. La fotografia di Piotr Sobocinski Jr. esalta i contrasti tra il bianco delle luci e il nero delle ombre, lasciando nel mezzo le tonalità livide di un perenne Purgatorio dove si dibattono i personaggi di Corpus Christi. E dove però proprio il rovesciamento di dogmi e (dis)equilibri incancreniti possono accendere lampi, scandalosi e catartici, di amore, di perdono, di (doloroso) cambiamento.

RASSEGNA PANORAMICA
VOTO
corpus-christi-la-recensioneDal 6 maggio nelle sale italiane c’è Corpus Christi (distribuito da Wanted Cinema), terzo lungometraggio del polacco Jan Komasa (dopo Suicide Room e Warsaw ’44), visto in anteprima a Venezia 76 all’interno delle Giornate degli Autori e candidato, tra le altre cose, come miglior...