Il grande spirito, il western metropolitano di Sergio Rubini: la recensione

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Il grande spirito Italia, 2019 Regia Sergio Rubini Interpreti Sergio Rubini, Bianca Guaccero, Ivana Lotito, Rocco Papaleo Distribuzione 01 Durata 1h e 53′

In sala dal 9 maggio

LA STORIATonino, detto “Barboncino” (e scopriremo perché) è l’ultimo e il più scalcagnato di una banda che spadroneggia nei quartieri bassi di Taranto, colpa del suo passato di sbevazzatore di sambuca (“anche se mi porti le analisi del sangue, per te la pistola non ci sta”). Ma mentre in tre stanno effettuando un furto in casa di un boss rivale, preso da un raptus e dall’aggrovigliarsi degli eventi, prende il bottino e fugge per le vie e i tetti. Inseguito dai suoi a loro volta inseguiti dagli altri, ferito per una brutta caduta, trova imprevisto rifugio nel disastrato attico (diciamo così) di uno strampalato pazzoide, che si definisce sioux e si fa chiamare Cervo Nero. Questi lo crede l’uomo del destino e lo nasconderà, difendendendolo dalle due gang scatenate alla ricerca, mentre lui sogna la fuga con la più giovane e ambigua (ex)amante (“Milena, chiudi il beauty center e vattene a Manduria“).

L’OPINIONE – Non è una commedia, anche se cerca di non pigiare sui pedali dei toni e non mancano le battute (la migliore? Un’imprevedibile “La Fiat dopo la Punto non ha azzeccato una macchina” chiosata da Cervo Nero su una utilitaria rubata che tossice e non vuol partire), piuttosto quasi un western (davvero!), almeno nello schema, ovviamente travestito in una crime story metropolitana. Non tanto e non solo per i rimandi a una mitologia e un mondo magico in cui si è rifugiato Renato (questo il nome di battesimo di Cervo Nero) e che, come regno di fantasia (cinematografica) comanda, clamorosamente funzionerà davvero, ma per lo schema del solo contro tutti, dell’assediato senza vie di fuga, e dell’amicizia virile, ancorché eccentrica: “Perché tu si nu mi-no-ra-to!” continua a sbraitare il sempre più malmesso bandito prima di affezionarvisi davvero. E non manca neppure “la squaw” (ha il fiero volto di Ivana Lotito), ovvero una coinquilina nel palazzaccio in cui vive Cervo Nero, maltrattata da un marito trucido e brutale, e ruvidamente affezionata al matto che tutti vorrebbero internare.

Le due ore di lunghezza scivolano via con imprevedibile piacere, i personaggi sono strutturati al punto decente, tra la obbedienza alla stereotipia del filone e il bozzettismo caricato del dialettale (ma senza esagerare). I cattivi fanno i cattivi, come rubati dal set di Gomorra ma con accento pugliese e Rubini e Papaleo hanno le facce così segnate, da italiani veri, che fanno subito simpatia (oltre a essere impeccabili professionisti). La violenza è trattenuta ma la storia non sfugge ai lati cruenti (in questo senso è poco tarantiniana), questo lo si spiega (forse) anche perché tra i nomi degli sceneggiatori fa capolino quello di Diego Da Silva, scrittore di ottimo nerbo e che non disdegna il genere.