Waiting for the Barbarians – La recensione

Recensione di "Waiting for the Barbarians" di Ciro Guerra

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Waiting for the Barbarians

Il confine estremo dell’Impero (non meglio identificato) è salvaguardato da un avamposto fortificato, gestito da un magistrato con moderazione e “lascia fare”. Oltre al deserto vive, nomade, una popolazione chiamata genericamente “i barbari”. Tra le due entità vige una sorta di indifferenza non belligerante (“Ci vedono come visitatori” spiega il magistrato che si diletta di archeologia e linguistica “si dicono l’un l’altro: ‘sii paziente, prima o poi questi stranieri faranno i bagagli e se ne andranno’”). Almeno finché non sopraggiunge il colonnello Joll, un militare (“è più un poliziotto”) intenzionato a perseguitare con i metodi più brutali “gli altri”, ritenendoli una minaccia. Il maturo uomo di legge e governo, non tollerandone i metodi sadici e violenti, proverà a ribellarsi.

Sostiene il produttore (il film batte in parte però bandiera italiana) Michael Fitzgerald (Sotto il vulcano, La promessa) che è da 20 anni almeno che stava cercando di portare sullo schermo il fortunato romanzo di J. M. Coetzee – qui anche al debutto come sceneggiatore – Aspettando i barbari (ultima edizione: Einaudi). C’è riuscito incaricando il colombiano Ciro Guerra, autore nel 2015 di uno dei capolavori della stagione, l’enigmatico e visionario El abrazo de la serpiente. Peccato che, al suo primo lavoro in lingua inglese, il dotato cineasta si sia limitato in qualche modo a un lavoro di “bella scrittura”, di impaginazione classica ed impostata, aiutato dalla splendida fotografia (di Chris Menges e scusate se è poco!) senza però lanciare mai la visione verso emozioni e terreni inesplorati.

Robert Pattinson

In un set luminoso e curatissimo come la produzione (scene di Crispian Sallis e Domenico Sica, costumi di Carlo Poggioli, montaggio di Jacopo Quadri), tra Ouarzate in Marocco e Roma, le figure dei protagonisti appaiono sin troppo sagomate in un prevedibile schematismo nello scontro tra la tracotante civilizzazione ariana e un mondo considerato “terzo” e inferiore, disegnato tra il tartaro (tra l’altro inevitabile, almeno per noi italiani, pensare al celebre romanzo di Buzzati) e il sudamericano, sorta di rappresentanza antropologica e filosofica dell’alterità e della dignità del diverso da noi. Gli attori recitano ritagliati e cuciti sulla statura morale dei personaggi: dolentissimo (sin troppo) e martire Mark Rylance; ormai sempre aggrappato in maniera istrionica al trucco Johnny Depp che pare qui un incrocio tra una ss ante-litteram e il “tetesco” nella revoluciòn messicana di certi spaghetti western (ma anche di Il mucchio selvaggio); Robert Pattinson sadico e odioso da routine, più una iconica (lei sì) Gana Bayarsaikhan, modella di origine mongola, scoperta in Ex Machina e lanciata in Wonder Woman, esotica e misteriosa barbara e la disincantata Greta Scacchi di rincalzo a fare la nonna di casa. Il film è stato presentato alla Mostra di Venezia nel 2019 ma esce solo ora.

VOTO: (★ ★ ½)