
C’è tanto Wenders in questo febbraio. Tra celebrazioni, riscoperte e scoperte. Innanzitutto il Festival di Berlino 2015 lo premia con una speciale Orso d’Oro alla carriera, con questa motivazione (parole del direttore della Berlinale Dieter Kosslick: «Rendiamo omaggio a Wim Wenders, onorando uno dei più importanti autori contemporanei. Il modo in cui ha affrontato i vari generi cinematografici e il suo lavoro da filmmaker, fotografo e autore ha contribuito a dar forma alla nostra memoria del cinema, continuando a ispirare altri registi ». In programma al Festival 10 suoi film restaurati e digitalizzati (che presumibilmente faranno poi il giro del mondo per musei e cineteche).

In Italia invece due suoi capolavori già del periodo di mezzo verranno ridistribuiti, sia pure per un giorno, da Ripley’s Film e Nexo: Il cielo sopra Berlino (Premio per la Miglior Regia a Cannes 1987) il 18 febbraio e Paris, Texas (Palma d’oro a Cannes 1984) il 25. A Milano poi, dal 3 al 27 febbraio allo spazio Oberdan un lungo omaggio a ripescare molte delle sue opere più significative, mentre a Villa Panza (Varese) – ed è questa una scoperta assoluta – organizzata dal FAI, ecco Wim Wenders, America (sino al 29 marzo), una Mostra di 34 stupende fotografie scattate dal regista tra la fine degli anni ’70 e il 2003, una personale lettura del paesaggio (anche umano) statunitense, tra l’altro dedicata all’amico attore-regista-fotografo Dennis Hopper: del resto Wenders ha sempre considerato Easy Rider un suo personale cult – anche politico – e quella di Hopper una performance straordinaria di annullamento del diaframma tra attore e ruolo.

Tanta roba insomma, che giustamente riporta l’autore ora quasi 70enne (li compierà il 14 agosto) al centro dell’attenzione, per quello che Wim Wenders è stato e ha rappresentato e per la coerenza della sua biografia artistica, ancorché variegata, eclettica e magari diseguale per riuscita. Esploso nei Settanta, è stato con Fassbinder, Herzog, Schlöndorff, Reitz, Von Trotta e Syberberg una delle figure chiave del cosiddetto Nuovo Cinema Tedesco, la prima corrente cinematografica âautoctonaâ a segnalarsi e imporsi dai tempi fulgidi dell’espressionismo degli anni ’20. Un movimento tanto radicato nell’identità nazionale in qualcuno quanto (anche) straordinariamente internazionale e aperto in altri. Specialmente in Wenders che ha fatto della cultura americana rivista criticamente il proprio nutrimento culturale e viceversa dello sradicamento e del viaggio la sua filosofia di vita: «Attraversare le frontiere ti da come la sensazione di perdere dei preconcetti », «Perché tanti viaggi nei miei film? Perché è quello che faccio nella vita. Perché viaggiare è l’opposto che stare a casa. E stare a casa vuol dire restare intrappolati ».

E questo spirito libertario tipicamente anni ’60/’70, questo bisogno incessante di alimentare la propria curiosità verso il mondo, è stato il mastice di una cinematografia imponente, 57 regie tra corti, fiction, documentari, reportage. Dai capolavori del passato (Alice nella città, 1974, l’epocale Nel corso del tempo, 1977 e poi i due citati sopra e riproposti in sala) a documentari di lancinante bellezza (Lampi sull’acqua, 1980, Lisbon Story, 1994, i musicali Buena Vista Social Club, 1999, L’anima di un uomo, 2003, fino ai recentissimi Pina, 2011 e Il sale della terra, 2014), a stravaganti âpasticciâ di finzione coraggiosamente scentrati (Fino alla fine del mondo, 1991, The Million Dollar Hotel, 2000, Palermo Shooting, 2008).

Una biografia cinematografica unica come si vede, di uno spirito generoso (ricordiamolo anche a dare una mano ad Antonioni in Aldilà delle nuvole, 1995), legato alle sue passioni culturali (ci piace citare al proposito il rock’n’roll europeo, i film di Ozu, Robert Mitchum, Turner, Vermeer, Kaspar Friedrich) ma con gli occhi sempre spalancati sul futuro, con ancora la forza di stupirsi e vivere il proprio tempo in prima fila.