Torino Film Festival: su YouTube la terza masterclass, con Taghi Amirani e Walter Murch

Alla terza masterclass del TFF, il regista iraniano Taghi Amirani e il grande montatore di Hollywood Walter Murch hanno raccontato il loro film sul golpe in Iran, Coup 53

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Si è parlato, come da titolo, di Film and Social Justice durante la terza masterclass del Torino Film Festival, condotta dalla vicedirettrice Fedra Fateh. Ma si è parlato anche di pagine oscure della Storia, e di un film coraggioso, Coup 53, realizzato dal regista iraniano Taghi Amirani insieme al montatore Walter Murch: i due, in collegamento, hanno infatti raccontato (dialogando anche con gli studenti del Politecnico di Torino) la sfida di questo documentario, acclamato al Festival di Telluride (e poi a Londra e a Vancouver) ma non ancora distribuito. E certo, oltre al Covid ha pesato l’argomento ancora scottante e troppo poco dibattuto, il colpo di Stato militare che nel 1953 depose il primo ministro iraniano Mohammad Mossadeq per restaurare il regime dello Scià.

Scottante, perché il doc di Amirani e Murch ricostruisce e mette in evidenza, attraverso testimonianze e materiali inediti, il ruolo dell’MI-6, ovvero i servizi segreti britannici, come veri registi (in collaborazione con la CIA) del golpe avvenuto nel ’53. Una responsabilità tuttora mai ammessa dal governo britannico, e un capitolo chiave nella storia dell’Iran e del mondo, dunque un’impresa non da poco per Amirani: «Ci ho impiegato veramente tanto tempo prima di sentirmi a mio agio nell’affrontare questo argomento». Una «storia che deve essere raccontata», comunque. Ed è una storia, quella di Coup 53, che parla anche del bell’incontro tra il documentarista iraniano (residente nel Regno Unito) e uno dei più grandi montatori viventi di Hollywood, Walter Murch (nella sua filmografia figurano La conversazione, Apocalypse Now, Ghost, Il padrino- Parte III).

I due, come ha raccontato Murch, si sono incontrati per la prima volta a New York, grazie a un precedente documentario del montatore, Particle Fever (2013): «Ci siamo conosciuti e abbiamo incominciato a parlare di fisica», materia in cui Amirani è laureato. «Dopo quell’esperienza», prosegue March, «siamo rimasti in contatto», finché nel 2015 il montatore, dopo aver lavorato al film Tomorrowland, accetta di collaborare al doc del filmmaker iraniano, ritenendo che sarebbe stato «come un respiro di sollievo dopo quell’altro film pieno di effetti speciali». E l’avventurosa realizzazione che ne segue ha i colpi di scena (e gli ostacoli) di un’indagine in piena regola. «Tutte le difficoltà che avremmo potuto incontrare», racconta Amirani, «le abbiamo incontrate»: compreso l’abbandono in corsa della società hollywoodiana che avrebbe dovuto finanziare il film. «Non ci hanno mai spiegato perché», dice Murch.

D’altronde, ricorda ancora quest’ultimo, «Hitchcock diceva che con un film di finzione il regista è Dio, con un documentario Dio è il regista». E il dio dei documentaristi sembra a un certo punto venire incontro ai due, che incappano in una scoperta fondamentale, la trascrizione di un’intervista inedita (e andata apparentemente perduta) all’agente dell’MI-6 (morto nel 1993) Norman Darbyshire, che emerge come il vero e proprio «sceneggiatore del golpe» in Iran. A quel punto, racconta Amirani, «Tutta una serie di cose hanno iniziato a fare “click”, a trovare il loro posto». 

Sulla base della trascrizione, il film ricostruisce dunque l’intervista a Darbyshire facendolo interpretare dall’attore Raplh Fiennes: un altro segno del felicissimo incontro di Coup 53 tra un cinema d’inchiesta indipendente e la forza spettacolare del cinema angloamericano. Tra le altre cose, il film di Amirani e Murch lavora sul piano audiovisivo proponendo una «fusione tra musica iraniana-persiana e occidentale» (spiega il montatore) e utilizzando la tecnica di animazione del rotoscopio, che fa somigliare alcune scene ad «un dipinto ad olio impressionista». Più ancora che di un film politico, dice Amirani, «si tratta di un thriller investigativo, grazie all’intervento di Walter Murch». «La mia esperienza», aggiunge quest’ultimo parlando del documentario, «è stata molto simile a quella del montaggio di un film di finzione, volevamo renderlo il più possibile breve, solido, ma soprattutto emozionante, brillante, sfaccettato, coinvolgente per tutti».

E il discorso del film sfaccettato lo è, mostrando oltre a «quei quattro giorni» del 1953 «e tutto quello che ha portato a quei quattro giorni», anche «quali sono state le ripercussioni nella Storia». Infatti, sottolinea Amirani, non solo in Iran «il risultato è stato il ritorno dello Scià e poi la rivoluzione degli ayatollah», ma nel mondo intero «il golpe ha fatto sentire gli inglesi e gli americani così forti che si sono sentiti autorizzati a farlo ancora, in Guatemala o in Cile». Fino ad arrivare all’attualità più prossima, con l’amministrazione Trump e il suo avvicinamento all’Arabia Saudita in chiusura del film.

Non c’è così tanto da stupirsi allora che il film sia stato così difficile (malgrado il successo di critica) a trovare qualcuno che lo portasse in sala. Al punto che, racconta il regista, «alla fine abbiamo deciso di autodistribuirci»: e così, aggiunge, «è stato il nostro film dall’inizio alla fine». Il documentario, anticipa Amirani, «sarà online molto presto», in vista (passata l’emergenza sanitaria) di future proiezioni in presenza in giro per il mondo: «Andremo in tutti i Paesi dove i governi sono stati rovesciati dagli americani e dagli inglesi». Il regista ha infine ringraziato il Festival di Torino per l’ospitalità, e in particolare la moderatrice e vicedirettrice Fateh, che per il suo impegno a sostegno di Coup 53 si è guadagnata la menzione di «angelo custode del film».