Venezia 81, Pupi Avati si racconta nella Masterclass

Cinema e vita del regista bolognese, al Lido prima della chiusura della Mostra

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Pupi Avati masterclass Venezia 81

Condotta dalla critica cinematografica Angela Prudenzi, e dopo le conversazioni con Sigourney Weaver, Cristina Comencini, Claude Lelouch, Richard Gere, Peter Weir ed Ethan Hawke, l’ultima masterclass ospitata dalla 81. Mostra Internazionale di Cinema di Venezia vede Pupi Avati mattatore nella Match Point Arena allestita al Tennis Club Venezia del Lido. Il regista bolognese – chiamato a chiudere l’edizione 2024 con il suo ultimo L’orto americano – spazia dai suoi primi film, le ingenuità e i disastri di una volta, l’amicizia con Lucio Dalla fino al suo grande amore,  la moglie Amelia Turri, detta “Nicola”.

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Son venuto nove volte a Venezia, in concorso e non, sono stato anche in giuria, ma mi mette ancora agitazione – racconta il regista, un habitué al Lido. – Dominano i bisbiglii, c’è qualcosa di malsano. Come è successo a Sanremo, conta più il red carpet che i film, sui media si da più importanza a come era vestita Lady Gaga che alla qualità dei film. C’è da restituire più attenzione al cinema italiano, che sta vivendo una crisi terribile. Sono molto preoccupato“.

Altro che intelligenza artificiale, c’è qualcosa che va oltre, e che certe volte ti commuove, io a volte piango scrivendo delle cose, tanto mi immedesimo – dice Pupi Avati del suo lavoro. – In genere mi illudo di aver scritto qualcosa di eccezionale e preparo il discorso di ringraziamento per gli Oscar. A ogni film il discorso è diverso, ovviamente, che qualcuno intanto è morto e non posso più ringraziarlo, ma lo schema io ce l’ho da prima di fare il primo film, che si chiamava Balsamus, l’uomo di Satana. Una volta, visto che l’Oscar tanto non me lo davano, provai questo discorso a Taormina e Pippo Baudo, che quell’anno mi diede cinque nastri d’argento per Una gita scolastica, a pari merito con E la nave va di Fellini, alla fine mi disse solo ‘tutto qua?'”.

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In compenso di film ne ha fatti tanti, e di ogni genere, o quasi…
Tranne il Western, che in Romagna è difficilissimo. Non l’ho potuto fare, con la piadina c’entra poco, ma non mi piacciono i film western, e non mi mancano, ma i film di genere sono stati molto bistrattati dagli autori nati dopo il ’68. Quando facemmo Balsamus, che era un film pienamente sessantottino, intriso della lettura dell’Opera aperta di Eco, puntavamo a vuotare le sale cinematografiche. E ci siamo riusciti. Tutti i film del ’68, del ’69 e del ’70 non li vedrete mai, su nessuna rete televisiva privata, sono invedibili, talmente presuntuosi e convinti che il pubblico debba partecipare all’atto creativo insieme all’autore… Ricordo che quando uscì Balsamus eravamo nel foyer del Salone Margherita e ci davamo di gomito contenti quando la gente usciva dalla sala dopo il primo tempo chiedendo indietro i soldi del biglietto. Il produttore perse 170 milioni con questo film, e altri 110 con il successivo, Thomas e gli indemoniati, che andò peggio di Balsamus, per quanto fosse difficile. Ci trovammo in una situazione catastrofica, per la gioia dei miei concittadini!

Addirittura?
Io vengo da una città di una cattiveria assoluta, le città di provincia sono spietate, ma anche io sono così, godo degli insuccessi dei miei concittadini. E dei miei colleghi, soprattutto. Sono in competizione con tutto il mondo, e perdo sempre. Temo che Dio sia un po distratto nei miei riguardi, avrebbe dovuto risarcirmi dopo tanti schiaffi presi nella mia vita, per aver fatto un cinema diverso, non protetto dalle varie parrocchiette. Ho un rapporto complicato con l’Altissimo. Come quando con Lucio Dalla facevamo a chi suonava meglio, ed era sempre lui. Non era piacevole. Faceva questi assoli meravigliosi e mi guardava come quelli che ti superano in autostrada… Il suo talento mi aveva inibito al punto tale che non riuscivo più a suonare.

Impossibile non pensare a La casa dalle finestre che ridono, per molti un capolavoro, una rivincita?
Capolavoro non lo so, ma a fare questo film mi portò la disperazione di un momento tragico. Dopo aver fatto un film con Tognazzi e dopo l’insuccesso dei due film bolognesi, mi trasferii a Roma e per molto tempo faticai a trovare lavoro, fino a che proprio Tognazzi, che allora era una grande star, non si offrì di fare un film con me. Subito dopo quel film, con Tognazzi e Villaggio (La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, ndr) feci Bordella, un film su una casa di piacere statunitense, una storia grottesca, surreale, che venne sequestrato, perché allora sequestravano i film, solo che io ero convinto che, avendo partecipato alle fiaccolate in sostegno di tutti gli altri film sequestrati, dal Portiere di notte della Cavani a Ultimo tango a Parigi, che adesso sarebbe toccato a me, ma mi ritrovai solo, completamente solo. Da quel momento nacque una sorta di ebrezza da emarginazione. Anche se il film in sala incassò tantissimo, per altro, venimmo tutti condannati per oscenità, a un anno e 9 mesi, il film venne sequestrato, l’avvocato sparì, e io proposi a mio fratello e a Gianni Minervini di reagire facendo il film più economico dell’anno. Andammo dai fratelli Cicogna a proporre una storia, sulla favola che raccontavamo di un prete donna sepolto nel cimitero di San Leo e in 12 persone con 120 milioni facemmo questo film, che dopo tanti anni è ancora vivo. Un film miracoloso, fortunato, ma nella mia vita, i film “di recupero”, quelli che vengono dopo gli insuccessi, son stati sempre quelli più fortunati. Credo sia qualcosa che dovrebbe essere insegnato anche al centro sperimentale: di tornare al nostro cinema, a costo contenuto. Sento certi budget, di film presentati anche alla Mostra, che sono davvero fuori mercato.

Intanto, qui al Lido è con un film costato 3,2 milioni
Ne ho fatto anche uno che costava 15 miliardi, ed è andato malissimo, ma fare un cinema economico è più bello, hai la macchina da presa vicina, gli amici intorno, i fedelissimi, che è una qualità unica, senza gli obblighi che vengono con una grande troupe. Allora mio fratello dipinse le bocche che ridono sulla casa, e tutti facemmo molte cose. Da lì nacque l’idea che fare cinema “de paura”, come si dice a Roma, sia qualcosa di molto stimolante e interessante, e che ti permette di capire che capacità di controllo del mezzo hai.

Oggi come lavora ai suoi film?
Ancora oggi, quando scrivo, accanto a me c’è una enorme fotografia della mia classe di terza liceo… ormai son morti quasi tutti, ma eravamo una mostruosità. Il primo dopoguerra italiano era rappresentato da dei giovani orrendi e quella classe li rappresentava tutti: giganti, ciccioni, nani, tutti. Per altro nessuno potrebbe dire in che stagione sia stata fatta, visto come sono vestiti, con uno in canottiera al fianco di uno col cappotto e la sciarpa. Ognuno si era messo addosso quello che aveva. Era una Italia mostruosa, quella del dopoguerra, ché la paura ti rende brutto. E anche le ragazze erano poco belle, e quando sono tante ragazze poco belle, improvvisamente ne nasce una misteriosa, alla quale non sai dare il nome. Dopo l’insuccesso come musicista, mi dedicai quindi alla bellezza femminile e a conquistare la ragazza più bella di Bologna, che incontrai sotto i portici di via Rizzoli al fianco del principe Zucchini. Secondo me, ognuno di noi è un puzzle, e in certi casi, affettivamente manca una tessera, che è la lei della tua vita, io ho sempre pensato questo, e allora capii che era lei la tessera che mi mancava.