Francia/Giappone Regia Kore-eda Hirokazu Interpreti Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Clémentine Grenier Durata 1h e 46′
«La casa sembra un castello», «Sì, anche se dietro è una prigione». Così dialogano Lumir (Binoche) e la figlioletta, mentre si approssimano alla casa in cui ha vissuto e vive la madre (e nonna) Fabienne (Deneuve), star ancora luminosa del cinema francese. Arrivano da New York insieme al marito e padre, un simpatico attore di serie B (Hawke) e in gioco c’è evidentemente tutta una serie di questioni irrisolte e dolorose che la autobiografia pubblicata di Fabienne sembra aver ridestato, anzi acuito, nella figlia («Avevi promesso di farmi leggere il libro prima di pubblicarlo!»). Tra casa e il set di un film di fantascienza più intimamente impegnativo di quanto non appaia a primo acchito, madre e figlia si confronteranno, così come tutto il contorno di persone dalle correlazioni quasi sinuosamente complicate. Segreti, gelosie, ferite al cuore, tenerezze e mancanze di riguardi, ma anche una splendida ricognizione della vita sul set, a registrare le misteriose alchimie da cui scaturisce la grande recitazione.
In Francia come in Giappone, Kore-eda Hirokazu conserva intatta la sua dote di grande “scrittore” e detective dell’anima. Come del resto recita significativamente una battuta: «La poesia nel cinema è necessaria. Sia che parli di violenza, sia che si parli di banalità quotidiana». Ed è una massima che il regista giapponese in trasferta (ma non in vacanza) a Parigi ha fatto sua. Ama tutti i suoi personaggi, attori di una più generale e articolata commedia umana, a imitazione della complessità della vita, magari vista con delle lenti appena appena rosate. Catherine Deneuve è gigantesca (grande grande grande!) come l’alone che circonda il suo personaggio, star dalla lingua corrosiva («Mai fidarsi di una donna che ama i gatti!». Peraltro per infilzare una persona le basta un arricciar di labbra, un ammiccare en passant, insomma un godimento puro per ogni spettatore): apparentemente anafettiva, egotica e superficiale, ma in realtà vede e assorbe tutto. Perché gli attori sono fatti di una pasta speciale di sublime fragilità che li porta a concentrarsi e a soffrire in una dimensione del tutto personale e particolare.
Con la sua scrittura visiva discreta, puntuale e gentile, Kore-eda ci ha donato un altro ritratto collettivo di famiglia disfunzionale ma non per mancanza di amore e sentimenti, dando oltretutto la possibilità a ogni attore – anche secondario – di arricchire il proprio personaggio senza rovinare l’armonia collettiva di un insieme che davvero fa bene all’anima. Difficile per la Mostra iniziare meglio di così.