Nicolas Philibert al Biografilm: «Oggi ad essere in pericolo è l’umano»

Il regista e documentarista Orso d'oro ha aperto la diciannovesima edizione del festival bolognese con Sur L'Adamant. Proiettato anche il suo titolo cult Essere e avere

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«Io sono un cineasta di relazioni: la prima cosa che faccio è cercare di instaurare un rapporto di fiducia con le persone, e di creare le condizioni etiche, estetiche, anche politiche, perché quelle persone abbiano voglia di donarmi qualcosa». Il primo grande ospite del diciannovesimo Biografilm Festival è stato Nicolas Philibert, regista e documentarista francese Orso d’oro all’ultima Berlinale per Sur L’Adamant, il doc che il 9 giugno ha aperto la manifestazione bolognese (fino al 19 giugno, e online con 22 film su MYmovies), incentrata quest’anno sul tema dell’identità – inteso, ha sottolineato il Direttore generale Massimo Mezzetti, non come una «clava ideologica» ma come un percorso teso a «sollecitare interrogativi».

E iniziare con Philibert, che alla serata di inaugurazione ha ricevuto il Celebration of Lives Award 2023 dai direttori artistici del festival Massimo Benvegnù e Chiara Liberti, significa proprio aprirsi alla varietà e complessità del reale: in questo caso, quello di un centro diurno pubblico parigino, “L’Adamant”, appunto, situato su una piattaforma galleggiante della Senna.

Un luogo che fa bene il paio con la scuola rurale di Essere e avere (2002), altro amatissimo film di Philibert (tra i suoi più noti in Italia assieme a Nel paese dei sordi), proiettato il 10 giugno al Biografilm e dal 12 di nuovo nelle nostre sale per I Wonder Pictures, anche distributore di Sur L’Adamant. Quest’ultimo, ha rimarcato il cineasta, ci mostra «una psichiatria a misura d’uomo», in controtendenza con la prassi purtroppo sempre più diffusa di ridurre servizi e specifiche attenzioni ai pazienti per massimizzare i ricavi economici. «La psichiatria è il “parente povero” della sanità francese», ha spiegato Philibert, «la sua mancanza di attrattiva, che fa allontanare molti medici e operatori, deriva dal fatto che ci sono sempre più adempimenti burocratici a cui stare dietro e sempre meno tempo per occuparsi delle persone».

L’isolotto filmato dal regista, invece, è un’oasi «dove i pazienti possono essere se stessi: l’approccio de L’Adamant cerca sicuramente di accompagnarli, di curarli, ma non vuole uniformarli, farli diventare “come noi”, “normali”. Vuole aiutarli a vivere nel mondo la loro singolarità». Anche e soprattutto attraverso le attività creative. «Ogni paziente ha bisogno di trovare la sua soluzione, non ce ne è una miracolosa valida per tutti. Ad esempio, uno degli uomini che ho filmato a lungo, il paziente che scrive e canta la canzone Just Open the Doors, è estremamente colto, parla di Jim Morrison, di Wim Wenders, di Van Gogh, ed è un vero artista, ha trovato un suo equilibrio scrivendo, dipingendo, facendo musica, facendo fumetti. L’altro che mi viene in mente è il giovane con i magneti attaccati al collo, li tiene per difendersi dalle voci, ha trovato questo metodo».

Un modello positivo, quello dell’Adamant, «ma per quanto?», si chiede la didascalia in chiusura del film. La società (non solo francese) sembra agli occhi del filmmaker andare nella direzione opposta: «Il sistema sanitario punta ad avere il paziente in cura per il minor tempo possibile, trovare le pillole giuste e mandarlo a casa. Gli operatori, gli psichiatri vorrebbero aiutare il paziente a ricostruire un rapporto col mondo, ma il sistema capitalista in cui viviamo è un sistema in cui bisogna produrre e il mondo produttivo pensa che non abbia senso spendere soldi per persone che non torneranno mai produttive perché non guariranno mai del tutto».

Ma il discorso e l’allarme di Philibert si estendono ad ogni ambito della nostra vita: «Oggi, ad essere in estremo pericolo è la componente umana: sta diventando la parte più fragile in un mondo dove si parla tutti i giorni di intelligenza artificiale e diventiamo sempre più schiavi degli algoritmi, con i nostri telefoni che ci dicono ogni giorno cosa dobbiamo comprare, vedere, fare. Siamo un po’ “gestiti” da questo, e ciò fa sì che non ci siano più il diritto all’errore e alla singolarità, si tende a uniformare. E il campo psichiatrico, che vive proprio della singolarità, è il più fragile di tutti. Ci sono addirittura paesi in Asia dove gli psichiatri vengono sostituiti da dei robot, è terribile».

Al contrario, sarebbe importante secondo il regista estendere il modello dell’Adamant, in modo che le strutture di cura non assomiglino a carceri ma, potendo contare su un maggior numero di operatori, propongano «laboratori, passeggiate, cose di questo tipo». Non è un caso che il cineasta francese, come anticipato alla cerimonia d’apertura del Biografilm, stia attualmente lavorando a nuovi progetti che proseguiranno l’esplorazione del settore psichiatrico. «Mi interessa molto, perché penso sia davvero una lente di ingrandimento del mondo, mettendo in risalto le situazioni di violenza che vediamo tutti i giorni. Ed è una lente anche sui tormenti dell’animo umano».

Sur L’Adamant, in questo senso, «non è un film sulla psichiatria ma è un film dentro la psichiatria. Non sono uno specialista, non faccio film per insegnare qualcosa allo spettatore o come deve pensarla, generalmente parto dalla mia ignoranza, dal mio non sapere. Il mio istinto è di andare incontro alle persone, a scoprire delle cose. In questo caso porto lo spettatore per mano a vedere con me questo posto».

Sempre lasciando la massima autonomia tanto a chi guarda quanto a chi viene guardato. «Ognuno deve avere il diritto e la libertà assoluta di dire se vuole essere filmato o meno, in ogni momento. Non parto mai con un piano precostituito, ma filmo soltanto ciò che le persone mi vogliono dare, e sono disponibile a tutto ciò che desiderano darmi, così il film si costruisce giorno per giorno. In fin dei conti, cosa ci fa vedere questo film? Un incontro con delle persone. E magari questo incontro ci può cambiare, farci superare qualche pregiudizio».