ASPETTANDO CANNES: STEVEN SPIELBERG, IL FABBRICATORE DI SOGNI

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C’è un regista, o forse sarebbe meglio chiamarlo autore, che più di tutti ha saputo toccare le corde della nostra immaginazione
, facendole vibrare di ricordi, sogni, emozioni. Un fabbricante di grande cinema capace di accompagnare tre generazioni, ammaliate, divertite e spaventate da ciò che la sua testa – collegata direttamente al cuore – ha saputo concepire. E poi c’è una scena, di uno dei suoi titoli meno ricordati, che riesce a sintetizzare il concetto: il soldato Albert, interpretato da Jeremy Irvine, a guerra finita, accecato dai gas della trincea, richiama con un inconfondibile suono, un attimo prima che venga abbattuto, il suo cavallo Joey.

La telecamera si fa strada tra gli increduli reduci, per far abbracciare gli occhi del cavallo e quelli del suo fido amico. In quella sequenza di War Horse c’è tutta la potenza visiva e narrativa di Steven Spielberg: l’orrore della guerra, la rinascita, l’amicizia, l’amore. E quella speranza che – anche in mezzo al dramma più grande – ci sia sempre qualcosa che tenga in vita il cuore. Con una carriera cominciata nel 1964 con Firelight – girato a 17 anni con un budget di 500 dollari, nel garage di casa, durante i week-end – e ufficialmente partita poi nel 1971 con Duel, Spielberg è il tramite diretto tra la realtà (anche drammatica) alla fantasia. Tutto espresso su quello schermo bianco, come una tavolozza che prende vita.

Fin dal già citato Firelight – in Rete si possono trovare degli spezzoni – si capisce che Spielberg avrebbe intrapreso un percorso differente, adottando una poetica capace di concepire l’impossibile. Il film narrava di un gruppo di scienziati alle prese con gli UFO, in una sperduta città dell’Arizona. Inutile dire che questo esperimento sarebbe diventato poi la base per uno dei suoi capolavori: Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo. Proprio gli alieni sono uno degli elementi preponderanti nei sogni del regista. E chi meglio degli UFO per affascinare la platea? Ma, dietro l’aspetto favolistico che ha dato ai suoi titoli, da E.T. allo stesso Incontri Ravvicinati, si nasconde una chiave più profonda: la conoscenza dell’ignoto, che può passare attraverso il diverso, lo sconosciuto agli occhi comuni. E di conseguenza l’accettazione e la comprensione di qualcosa che non si conosce, che non deve essere necessariamente un pericolo o qualcosa di cattivo. Spielberg ha saputo parlare ai piccoli come fossero grandi e viceversa, riuscendo ad entrare nel loro inconscio per regalargli quello che hanno sempre desiderato: sia un archeologo con frusta e cappello, come ne I Predatori dell’Arca Perduta, che sia la riscrittura in motion capture di un simbolo europeo come Le Avventure di Tintin, o ancora la parafrasi dell’infanzia in Hook – Capitano Uncino oppure, in una delle sue massime espressioni, l’enfatizzazione dell’impossibile in Jurassic Park (pensate ad un bambino che vede “bucare lo schermo” dai suoi giocattoli che ha in cameretta), il cineasta ha coltivato un cinema grandioso, spettacolarizzando i sogni della platea. Cinema alla massima potenza, per tutti e di tutti.

Questa volta Cannes gli ha riservato un posto d’onore – calcò la Croisette praticamente all’esordio, con Sugarland Express, ottenendo il premio per la miglior Sceneggiatura – dato che all’imminente 69esima edizione presenterà fuori concorso Il Grande Gigante Gentile, adattamento del romanzo scritto da Roald Dahl nel 1982 e vero e proprio manifesto della letteratura fantastica per ragazzi. Dunque, ancora una volta, Spielberg applicato al sogno, in questo caso di un’orfana, Sophie, che viene rapita da un gigante dolce e gentile, che invece di mangiare i bambini come tutti gli altri giganti, gli regala sogni beati. Per la prima volta il nuovo film di Spielberg è stato prodotto da: DreamWorks, Amblin e Walt Disney Pictures. Quest’ultima si occuperà anche della distribuzione, ma esclusivamente negli States, da noi invece il compito spetterà a Medusa. Del resto, c’è sempre una prima volta. Anche per un dreamer-class hero.

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