“A Ciambra”: il film italiano sostenuto da Scorsese che è già diventato un cult a Cannes

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Una storia di periferia, illegalità e amore straripante di energia al Théâtre Croisette. E sono subito applausi al regista Jonas Carpignano e ai suoi attori che riempiono il palco come lo schermo. Nato come cortometraggio ricompensato alla Semaine de la critique nel 2014, A Ciambra, “la camera”, rinasce come lungometraggio per condurre la Quinzaine des réalisateurs al cuore di una comunità stanziale rom in Calabria. Sostenuto da Martin Scorsese, A Ciambra rimanda per alcuni al lavoro sulla comunità Yenishe di Jean-Charles Hue in Francia, per altri ricalca eccessivamente La Promesse dei fratelli Dardenne. Poco importa, però, alla sala commossa davanti all’opera del giovanissimo regista italo-afro-americano che si era già fatto notare dalla Croisette e dalla stampa internazionale per il suo primo lungometraggio, Mediterranea. Vento di neorealismo e diritto al sogno è dunque ciò che Jonas Carpignano insieme agli altri due registi italiani, Roberto De Paolis e Leonardo Di Costanzo, regalano alla sezione parallela di Cannes.

Girato a Gioia Tauro, in Calabria, A Ciambra è il romanzo di formazione del piccolo rom di nome Pio Amato, ansioso di crescere e diventare capofamiglia quando il fratello maggiore e il padre vengono mandati in prigione. Diventare adulti per Pio significa raggiungere i suoi parenti nella vita di rapina, commerci illegali e prove di virilità. L’educazione alla violenza ricevuta dalla famiglia si scontra, però, con gli insegnamenti del suo amico del Burkina Faso, che pur accompagnandolo in qualche colpo, cerca di trasmettergli altri valori, l’onestà, la sincerità, la lealtà. Ma riuscirà Pio a liberarsi dell’eredità dei suoi o rimarrà invischiato in questa sorta di malaugurata predestinazione? Il conflitto morale che lacera il ragazzo forse non è abbastanza approfondito ma la sua autenticità e la sua irrimediabile sorte intenerisce e fa sognare con tanta più tenacia.

L’autenticità è appunto la forza di Jonas Carpignano che così sopperisce a ogni debolezza. Girato con una telecamera in continuo movimento, il regista strappa immagini, frammenti di vita, moti d’animo alla famiglia rom che sembra compiacersi davanti al suo sguardo. Ma gli attori, tutti non professionisti che interpretano se stessi, infine, dimenticano la telecamera e lasciano il regista passeggiare tra le loro baracche, rovistare tra le valigie rubate, vederli fare accordi con la mafia locale, sfogliare i loro cuori alla ricerca di qualche briciola d’amore tra il fango e la miseria. Gli affetti rimangono tutto ciò che la famiglia possiede nonostante la necessità a volte superi il sentimento.

Tra furti di macchine e commerci di televisioni, le peripezie si susseguono senza sosta al ritmo scattante di Pio che i piani di Carpignano fanno appena in tempo a catturare. E’ attraverso lo sguardo del bambino che si sente già adulto, dalla formidabile interpretazione, che guardiamo gli adulti sperando in un suo miracolosa riscatto. E’ attraverso lo sguardo di un emarginato che guardiamo gli altri emarginati, minoranze etniche e sociali ai bordi dell’umanità, ma senza compassione. Ciò che ci ritroviamo a inseguire, attraverso la telecamera di Jonas Carpignano, è la bellezza della verità.

Francesca Ferri

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