“Detroit”: l’America razzista di Kathryn Bigelow alla Festa del Cinema di Roma

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Feroce, nervoso e dinamitardo: con Detroit Kathryn Bigelow e Mark Boal raccontano alla Festa del Cinema di Roma l’altra faccia degli Stati Uniti, oscura, pericolosa e nient’affatto lontana

Prima la cronaca: tra il 23 e il 27 luglio del 1967, Detroit, fu messa letteralmente a ferro e fuoco da una sanguinosa rivolta, scoppiata in seguito ad una retata, effettuata per mano della polizia, in un locale dove si festeggiava il ritorno a casa, dal Vietnam, di un soldato afroamericano. La sommossa, con numerosi episodi di sciacallaggio e razzia nei locali distrutti, fu una delle più cruente che si ricordino negli States, facendo oltre mille feriti e ben quarantatré morti.

Oggi, al tempo del sacrosanto #BlackLivesMatter, della paura che è tornata a serpeggiare nelle strade, della messa in discussione delle figure chiave della storia americana, da Colombo a Theodore Roosevelt, che da simboli nazionali sono diventati, a ragion politica, simboli di odio razziale, quella caldissima estate torna prepotentemente attuale e vicina al tempo (oscuro) che gli Stati Uniti – e di riflesso il mondo occidentale – stanno vivendo. Ce lo dice, con una macchina da presa, viscerale, dinamitarda e costantemente in movimento, la premio Oscar Kathryn Bigelow. In Detroit la regista poggia le focose e asfissianti sequenze sulla fortissima sceneggiatura firmata da Mark Boal (alla terza collaborazione con la cineasta, dopo i fasti di The Hurt Locker e Zero Dark Thirty), con la dichiarata intenzione, dopo un inizio quasi giornalistico, di far luce, lasciando allo spettatore l’eloquente e nervoso messaggio finale, su tre brutali omicidi avvenuti per mano della polizia, rimasti per lo più taciuti e ingiustamente impuniti.

Nel cast, giovane sì ma anche estremamente efficace, troviamo uno “spregevole” e “disumano” Will Poulter (bravissimo nel farsi odiare già dalla prima inquadratura), gli afroamericani Algee Smith e Jacob Latimore, che incarnano, rispettivamente, i sogni infranti di un’intera generazione, forse sconfitta ma dalla caparbia e leale dignità, più i lanciatissimi Anthony Mackie e John Boyega, ovvero due facce della stessa medaglia, in quegli anni ’60 che, al netto dell’esplosione culturale, facevano sberleffo a quanti, tornati dal napalm del Vietnam, si sentivano fuori posto a casa loro, con l’aggiunta di aver semplicemente un colore diverso della pelle. E oggi, a cinquant’anni di distanza, le cose sembrano non migliorare, nell’ombra più oscura e crudele di un’America che continua la sua lotta contro il razzismo, con la speranza che, da Selma a Detroit, fino a Charlottesville, il sangue versato ottenga, finalmente, giustizia.

Damiano Panattoni

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