“HOUSE OF CARDS 2”, FINALE DI STAGIONE: IL POTERE DEL MALE

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È andato in onda ieri sera su Sky Atlantic l’ultimo, potente capitolo della seconda stagione di House of Cards (attenzione: per chi non l’avesse vista, pericolo spoiler!)

È un cannone l’ultimo pezzo del plastico che Frank Underwood dipinge con soave dedizione mentre discute al telefono con l’uomo più potente del mondo che si trova, letteralmente, sul ciglio del burrone. Infatti c’è solo una cosa che Frank vuole più di tutte: diventare il 46° Presidente degli Stati Uniti d’America.

Proprio nel giorno delle elezioni statunitensi di medio termine è andato in onda, sul canale satellitare Sky Atlantic, l’epilogo della seconda stagione di House of Cards, la serie TV che più di tutte ha riscritto il linguaggio narrativo televisivo e interpretata magistralmente da Kevin Spacey e Robin Wright.

Il 26° capitolo dell’opera, suddivisa in tre serie (la prossima, quella conclusiva, è prevista per febbraio 2015), è diretto splendidamente da James Foley che riesce a donare alle immagini una raffinata bellezza facendo diventare l’eleganza visiva una congeniale cornice a quella che, più di un finale di stagione, è un’epica battaglia densa di colpi di scena, pensieri oscuri e, addirittura, lacrime. Perché il risultato definitivo è l’unica cosa che conta. Concetto chiaro e quasi ancestrale proferito proprio da Frank, guardando direttamente negli occhi uno spettatore mai così intimo; uno scopo ottenuto combattendo battaglia dopo battaglia, sporcandosi fin sul colletto di una camicia stretta alla gola e ricorrendo spesso e volentieri alla menzogna e, di tanto in tanto, alla verità, alternando nelle proprie mani elementi distinti ma, nel gioco della politica, incastrati e imprescindibili.

Quest’ultimo atto della season two – basata sul romanzo di Michael Dobbs e adattata da Beau Willimon – è la mossa finale di una partita a scacchi orchestrata da un solo e unico giocatore: l’emblematico Frank Underwood, borioso nell’intento di mangiare e distruggere un Re ormai nudo, spingendolo ”delicatamente verso gli scogli”. È proprio qui che House of Cards si fa altissima letteratura capace di tradurre per immagini il delirio d’onnipotenza del male che, in questo caso, viene (in)direttamente aiutato dal bene. Ecco che nei dialoghi compaiono Shakespeare e Dostoevskji, conciliando l’armonia letteraria all’esercizio politico, notoriamente grigio e monocorde. Naturalmente la conclusione non è altro che il risolutivo inizio, se pur minato da ombre ancora non del tutto dissipate.

La scalata verso il potere è lastricata di ostacoli e Francis, come lo chiama il suo contrappunto perfetto Claire, sa bene quanto sia affascinante e potente il lato oscuro dell’anima, tanto da cospargere, in torno a sé, una continua aura di intoccabile e sfacciata retorica in modo che si spalanchi, una volta per tutte, l’agognato Studio Ovale per governare l’Occidente stando in piedi dietro la resolute desk e ascoltando solo musica positiva. Signori e signore, ecco a voi il Presidente e la First Lady.

Damiano Panattoni