L’ALTRO ITALIANO AL FESTIVAL DI CANNES: “FRANKIE” DI FRANCESCO MAZZA

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Frankie C’è un quinto italiano a Cannes, oltre al magnifico trio Garrone-Moretti-Sorrentino nel concorso e all’italiano “americano” Roberto Minervini a Un Certain Regard. È il trentenne milanese Francesco Mazza che, dal 13 al 22 maggio presenta il suo cortometraggio Frankie (Italian Roulette) allo Short Corner, la sezione del festival dedicata ai nuovi talenti. Per nove anni autore di Striscia la notizia, Mazza ha già firmato l’interessante pilot di Vera Bes, web series ancora in fase progettuale a cui Ciak ha già dedicato un servizio (leggilo qui) ed ora sta lavorando negli States ad un documentario per Sky Arte sull’arte dei graffiti della metropolitana newyorkese durante gli anni ’70 e ’80.

Mazza si è trasferito a New York per frequentare la prestigiosa New York Film Academy e Frankie è appunto la sua tesi di laurea in filmmaking. Girato la scorsa estate in sette giorni anche in luoghi frequentati abitualmente dall’autore, compresa la sua vera abitazione (mentre il ristorante si trova a Long Island e la chiesa del finale è un’autentica chiesta cattolica nell’Upper East Side), Frankie vanta un nume tutelare d’eccezione, Amos Poe, uno dei padri nobili del cinema indipendente americano (Alphabet City, A Walk in the Park, premiato al Festival di Roma 2012), che firma il corto come co-sceneggiatore. Se lo stile richiama il migliore cinema indipendente americano (oltre a Poe, viene in mente la grande lezione di Cassavetes) l’anima narrativa di Frankie – non a caso il protagonista è lo stesso regista, circondato da giovani attori emergenti, fra i quali va almeno segnalata Christina Toth, già vista in Boardwalk Empire – è apertamente autobiografica: un frammento di diario intimo di un giovane italiano che inciampa nel Sogno Americano.

FrankieMazza racconta, con lo spirito caustico di un giovane Woody Allen intinto nell’amarezza del disincanto contemporaneo, incontri nonsense con belle americane fatti di incomunicabilità culturale, irritanti luoghi comuni sul Belpaese (come l’irresistibile gag sul “piatto tipico” Fettuccine Alfredo, condite con abbondanza di ketchup), fughe solitarie nostalgico-calcistiche, lavori occasionali da cameriere o uomo sandwich, e soprattutto cosa significa trovarsi in un limbo esistenziale, quando si passa dalla precarietà italiana all’invisibilità americana, in perenne ricerca della mitica Green Card. Un Sogno Americano in forma di incubo, che somiglia alla tetra casualità di una Roulette Russa. Quello che rende veramente speciali i 20 minuti di Frankie è appunto il suo graduale slittamento dal comico al drammatico, racchiuso in una struttura circolare che si apre e si chiude con un allarmante colpo di pistola, un sentimento cupo che finisce per cancellare anche l’oggettività realistica della prima parte portando la storia in un’atmosfera surreale e simbolica e imprigionando il protagonista in un non luogo che ricorda la ritualità erotico-funeraria di Eyes Wide Shut. Frankie, come progetta l’autore, ha tutte le potenzialità per diventare una serie televisiva o un lungometraggio, di cui ha già scritto il soggetto. Noi gli auguriamo di trovare sulla Croisette il suo sogno, non americano, ma cinematografico.

Stefano Lusardi