DI STEFANO LUSARDI
La prima storia, Dentro lo specchio (2011), è liberamente ispirata ad un fatto di cronaca e racconta la follia omicida di Milena (Elisa Bertato), che, vittima di una violenza sessuale, la sera esce di casa la vestita elegante e truccata con cura, abborda uomini sconosciuti, se li porta a casa, li seduce e poi li uccide a coltellate, mentre fa l’amore. La seconda, Dal profondo (per vederlo clicca QUI), riprende il tema classico della âcasa stregataâ: una giovane coppia (Davide Bardi e, nuovamente, Elisa Bertato) ha acquistato un’antica villa, che sembra avere solo un’aria decadente, ma che in realtà nasconde inquiete presenze, capaci di creare incantamento e di imprigionare il corpo e la mente dei nuovi proprietari. Il terzo e ultimo capitolo, L’altra faccia della luna, in fase di post-produzione, esce invece all’esterno, fra la natura selvaggia e incontaminata, dove un uomo (Francesco Laruffa) si risveglia nudo e senza memoria, e compie un pellegrinaggio simbolico, prima ritrovando i segni della sua vita precedente e civilizzata, poi, nella luce della luna piena, la sua vera e terribile natura.
Questa è l’essenza, ma solo âesterioreâ, della trilogia gotica – ma anche letteraria e filosofica, visto che si ispira ai classici di Poe e Lovecraft, e, in L’altra faccia della luna, richiama il mito della caverna di Platone – scritta, diretta e prodotta con la sua Nuove Officine Cinematografiche, dal veronese Luca Caserta. Caserta, ed è questo che rende inconsuete e interessanti le sue opere, utilizza e rilegge in modo molto personale l’idea di cinema come genere. La scelta ha una doppia valenza poetica: da un lato affronta il genere nella sua forma più classica, ovvero un horror lontano dalla moda del gore e dei suoi eccessi, tutto tensione e allusione; dall’altro utilizza il genere stesso in senso metaforico, spostando il senso della paura dall’esterno all’interno. Perché nelle sue storie il vero orrore è sempre dentro l’uomo, nascosto dietro la sua apparenza, la sua apparente normalità e la paura, che brucia l’anima, è quella di riconoscersi, di scoprirsi fino in fondo.
DENTRO LO SPECCHIOÂ (2011)
UNA DOPPIA VITA: INTERVISTA A LUCA CASERTA
Luca Caserta è nato a Verona nel 1977 e ha già vissuto due vite. La prima è cominciata da bambino, debuttando in teatro ad appena 7 anni, poi scrivendo e mettendo in scena i suoi testi teatrali. Luca è infatti figlio di Ezio Maria Caserta, uno dei padri nobili del teatro sperimentale italiano e fondatore, insieme all’attrice Jana Balkan (madre di Luca) del Teatro Laboratorio di Verona, poi diventato Teatro Scientifico. La sua âseconda vitaâ, iniziata nel nuovo secolo, lo ha invece portato verso il cinema. Dopo una laurea in Archeologia Preistorica e un diploma in Comunicazione e Multimedia, si è diplomato in Filmmaking all’Accademia di Cinema e Televisione di Cinecittà. Il suo corto di diploma, Dentro lo specchio (2011), che si avvale della supervisione al montaggio di Ugo De Rossi (montatore per Pasolini, Fellini, Petri, Tornatore), è stato presentato allo Short Corner del Festival di Cannes. Sempre nel 2011 fonda Nuove Officine Cinematografiche, con la quale produce sia video pubblicitari e videoclip musicali, che opere più personali, come il documentario artistico La fabbrica della tela (2013), sul pittore Simone Butturini, presentato di recente anche all’Istituto Italiano di Cultura di Vienna, e i corti, Dal profondo (2014), presentato ugualmente allo Short Corner e acquistato per la distribuzione on demand dall’americana IndiePixFilms, e L’altra faccia della luna, attualmente in post-produzione.
Com’è avvenuto questo tuo passaggio dalla tradizione teatrale legata alla famiglia alla scelta autonoma e personale del cinema?
Sono partito dalla scrittura – poesie, racconti, testi teatrali -, che non ho mai abbandonato, per arrivare alla regia, ma ho sempre cercato una mia personale forma d’espressione alternativa a quella che già avevo per storia familiare. L’oggetto cinema mi ha affascinato anche per la sua fisicità, perché la macchina da presa ha un suo peso, non solo metaforico, diventa una vera e propria estensione del tuo corpo, e c’è, nel cinema, sempre una forte componente pratica e artigianale, concetto che mi hanno trasmesso molto bene all’Accademia di Cinecittà. Il mio rapporto fra l’esperienza teatrale e questa nuova legata al cinema è un po’ ambivalente: da un lato mi accorgo che ho un approccio diverso rispetto a quello che avevo col teatro, che là era più istintivo, qui invece, sia come storie che come tecnica, parto da un approccio forse più classico, ma cercando comunque di sperimentare, anche perché è un percorso in divenire, che sto mettendo a punto opera dopo opera, alla ricerca della mia âvoceâ. D’altro canto esiste una continuità: Dentro lo specchio ha come prima ispirazione L’appuntamento (2009), un mio spettacolo teatrale che rileggeva in chiave psicoanalitica episodi di cronaca e di follia e seguito di Otello-Altre verità (2008) , un altro spettacolo sul medesimo tema liberamente ispirato all’omonima opera di Shakespeare.
Se definisco i tuoi tre corti cinema di genere, seppur un genere rivisitato in chiave simbolica ed esistenziale, la cosa ti fa piacere o ti infastidisce?
Il rapporto col genere esiste certamente. Dal profondo, oltre che a Lovecraft e Poe, è ispirato a Gli invasati di Robert Wise, e per L’altra faccia della luna, oltre alla caverna di Platone ho pensato anche a certi horror classici del cinema britannico, ma anche alle atmosfere di Tutto è perduto, il film di J.C. Chandor con Robert Redford: quel senso di isolamento e solitudine di un individuo costretto a confrontarsi con se stesso mi ha affascinato profondamente. Non mi infastidisce l’idea di fare cinema di genere, perché, estremizzando, tutto è genere, anche La Divina Commedia, o almeno l’Inferno è una magnifica opera horror. Certo devo ammettere che mi sono trovato a partecipare ad alcuni festival horror, e mi sentivo proprio un pesce fuor d’acqua.
L’altra faccia della luna, per quello che ho potuto capire, mi sembra un’ ulteriore evoluzione rispetto ai primi due. A partire dalla scelta di girare tutto in esterni in ambiente naturale fino all’assenza di dialogo, cosa interessante visto che il tuo percorso artistico è iniziato dalla parola. Dei tre è stato il più difficile da realizzare?
Certo quello in cui ho più sperimentato le variabili e la fatica anche fisica del cinema. L’ho girato tutto a Vajo Borago, fuori Avesa, perché, anche se ora vivo prevalentemente a Roma, Verona e i suoi dintorni mi permettono sempre di trovare location interessanti. Con la troupe, una decina di persone, scherzando ho detto che mi sembrava di essere sul set di The Mission, fra acquazzoni improvvisi, fango e zanzare grosse come elefanti. Per non parlare della sofferenza di Francesco Laruffa, esposto nudo alle intemperie e costretto a camminare scalzo su sassi acuminati. Ho girato da filmmaker, utilizzando solo luce naturale. Non so se è stato il più difficile, certo il più libero e sperimentale.
A questo punto pensi al cinema tradizionale, quello in sala? Hai già dei progetti?
Diversi. Ho già scritto tre trattamenti per lungometraggio. Il primo è un thriller, ispirato a Dal profondo, ma a differenza di questo non sviluppato in chiave paranormale; il secondo è un fantasy che rielabora L’incredibile viaggio della Principessa Rolanda, un mio spettacolo teatrale del 2006: un progetto impegnativo, perché prevede la creazione di un mondo, per cui necessita di una produzione internazionale ad alto budget. Il terzo, Gone Elvis, che ho scritto con Adamo Dagradi, già co-sceneggiatore di L’altra faccia della luna, è un altro fantasy, ugualmente con budget corposo. Decisamente non disdegno il genere, basta che sia lo strumento e non il fine.
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