UNA LEZIONE DI CINEMA DI ETTORE SCOLA, DAL BIF&ST 2015

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L’insegnamento di Ettore Scola lascia un’importante eredità nel cinema italiano: per ricordare il Maestro scomparso il 19 gennaio vi riproponiamo la cronaca della masterclass che Scola ha tenuto lo scorso marzo al Bif&st. Dove ha parlato dei suoi inizi e del cinema come un bene comune necessario a tutti

Teatro Petruzzelli affollatissimo per la master class di uno dei registi italiani più amati, Ettore Scola, classe 1931, presidente del Bif&st, sceneggiatore e regista di opere rimaste nell’immaginario collettivo per la loro capacità di raccontare  un pezzo di storia e dei (mal)costumi italiani. Una lezione-conversazione guidata da Enrico Magrelli, vice direttore artistico della manifestazione barese, in cui Scola ha saputo trasmettere ai tantissimi giovani presenti (vero vanto di questo Bif&st) la sua visione della settima arte come strumento fondamentale per la crescita e il rinnovamento sociale e culturale.

Bif&st 2015: Ettore Scola riceve il premio Fipresci 90 Platinum Award

Il cinema come fertilizzante delle idee

Alla domanda «Cosa saremmo noi senza il cinema? » il regista ha risposto: «Ci mancherebbe una fonte di idee e di dubbi. È quasi come chiedersi cosa avremmo detto o pensato e come saremmo vissuti senza la letteratura. Difficile immaginare un vuoto da Omero a Umberto Eco. Nonostante le crisi, quella economica e d’ispirazione, il cinema resta un bene comune necessario a tutti, specialmente ai giovani. La sua forza è rappresentare idee che il pubblico potrebbe già avere anche in parte, ma che, affiancate alle proprie, fertilizzano la capacità di giudizio ».

L’orgoglio degli esordi

Scola ha poi ricordato i primi anni della sua carriera, quando faceva “il negro” per gli sceneggiatori. «Non è un fatto di colore della pelle, è un fatto di ruolo. Riguardava specialmente il cinema comico. Con tanti protagonisti sulla scena (Totò, Macario, Tino Scotti, Croccolo) si scrivevano circa trenta film all’anno. Si occupavano di quasi tutti Vittorio Metz e Marcello Marchesi, due geni della scrittura. Ma non ce la facevano a fare tutto: buttavano giù fino a dieci sceneggiature contemporaneamente e poi le passavano ai “negretti”, cioè a giovani nelle palestre dei giornali umoristici, come il Marc’Aurelio, un bisettimanale umoristico che in un’epoca senza tv né altre distrazioni vendeva quasi 500 mila copie. Metz e Marchesi affidavano i copioni ai giovani per aggiungere battute e situazioni. Io ho iniziato così ed è stato il periodo in cui sono stato più orgoglioso nella mia vita. Uno dei più grandi riconoscimenti che ho avuto è stata una risata di Totò a casa sua quando gli lessero un copione e lui disse “Questa battuta è di Scola non è nostra”. Quella risata valse un Oscar, uno di quegli Oscar che non ho mai avuto ».

I modelli e l’amore per l’Italia

«La mia generazione ha avuto la fortuna di avere della gente che ammiravamo, che stimavamo. Mi dicevo “Se un giorno dovessi essere come Steno e poi come Dino Risi o Pietrangeli o Fellini”. Poi non ci si arriva mai, ma l’importante è avere dei modelli. Nella generazione di oggi ci sono talenti, ma non hanno modelli. A chi si ispirano? Oggi è più difficile anche per quello. Ciò che al tempo ci spingeva molto era anche un Paese uscito dalla guerra, dal nazismo, dal fascismo. Era un’Italia che amavamo. Oggi dire di amare l’Italia per un giovane è dura… Quello che manca è l’orizzonte, dove spingere lo sguardo. Noi lo avevamo, qualcuno lo interpretava meglio o peggio, ma avevamo uno sguardo comune. Ognuno sapeva che nel suo piccolo – calzolaio, falegname, pittore, giornalista, scrittore o regista che fosse – doveva partecipare. C’era una complicità, un’amicizia dove non c’erano differenze né di età né di livello artistico: era una volontà comune di fare qualcosa dettato dall’amore. Quindi il consiglio che posso dare è amare il proprio Paese. Da Proust a Steno non viene fuori niente se non ami il Paese di cui vuoi parlare ». 

Sergio Lorizio