Tra gli sceneggiatori di Grosso guaio all’Esquilino: La leggenda del Kung Fu con Lillo e assistente di Valerio Mastandrea nel suo esordio dietro la macchina da presa (Ride), Filippo Barbagallo fa il suo debutto come regista – e interprete – del Troppo azzurro al cinema a partire da giovedì 9 maggio (distribuito da Vision Distribution) dopo esser stato presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023, nella sezione Freestyle. Una commedia estiva romana che ha “il tono di una conversazione tra amici” e alla quale partecipano Alice Benvenuti, Martina Gatti, Brando Pacitto e Valeria Milillo, oltre allo stesso Mastandrea, in una amichevole – più ‘paterna’ – partecipazione.
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IL FATTO:
Dario, 25 anni, è aggrappato al suo equilibrio da adolescente: vive ancora a casa con i suoi e ha lo stesso gruppo di amici dal liceo. Quando nel torrido agosto romano inizia a frequentarsi prima con Caterina, una maldestra quanto spiritosa ragazza conosciuta per caso al pronto soccorso, e poi con Lara, la ragazza “irraggiungibile” dalla quale è sempre stato attratto, dovrà scegliere se restare nella sua comfort zone o lasciarsi finalmente andare.
L’OPINIONE:
Prodotto da Elsinore Film, Wildside, società del gruppo Fremantle e Vision Distribution (che lo distribuirà in sala), il film è davvero la realizzazione di un sogno, o l’inizio di uno nuovo. Che magari, stavolta, possa avanzare qualche pretesa dopo aver spiegato di non voler “sorprendere a tutti i costi” o “spiegare qualcosa” con quest’opera prima.
Che inevitabilmente nasce dalla propria esperienza, “estremizzata” come è giusto (e come ci tiene a sottolineare il regista) fino a diventare fiaba, tradizione neo popolare, e a offrirsi come spazio di riflessione su una serie di temi che sembrano stargli a cuore. Il passare del tempo, in primis, visto che il Dario protagonista ci accoglie con una analisi sui segni dello stesso, tra rovine “conturbanti” e “rassicuranti” insieme, e che lo vediamo subire in prima persona in questa parentesi esistenziale nella quale lo seguiamo più che romanzo di formazione.
Comunque un momento cardinale nella vita di un giovane cresciuto nella bambagia, desideroso quanto spaventato di affrontare una vita nuova, un viaggio, l’amore. E non solo per timidezza o naïveté, ché Dario non è un disadattato o uno “sfigato” cronico, semmai un ansioso, abituato a deludere gli altri, ma soprattutto se stesso, bloccato dalle possibili conseguenze che ogni sua scelta potrebbe avere.
Nascosto da sempre dietro al suo “non sono un superficiale” e a elucubrazioni pseudo filosofiche utili a giustificare l’ingiustificabile o a evitare ogni considerazione morale, Dario non fa che rimandare l’ineluttabile. Con cui dovrà confrontarsi in un finale emblematico, letteralmente tuffandosi nelle proprie paure, forse persino crescendo.
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Più dei giovani romani (d’altri tempi) di Nanni Moretti o Carlo Verdone, verredbbe da pensare semmai al Pranzo di ferragosto di Gianni Di Gregorio, film d’esordio di un regista che del quotidiano di una Roma meno epica ha fatto la sua cifra stilistica, fino all’ultimo Astolfo del 2022.