Maren (Taylor Russell) è una giovane donna che ha imparato a sopravvivere ai
margini della società, Lee (Timothée Chalamet), un vagabondo dall’animo combattivo. Il loro incontro ha il sapore di un primo amore. I due intraprendono un viaggio lungo centinaia di chilometri attraverso l’America degli anni ’80, fatta di povertà e conformismo. E neanche il loro amore riesce a strapparli alla loro realtà di cannibali, in un mondo popolato da altri come loro (ad iniziare dall’enigmatico Sully, interpretato da uno strepitoso Mark Rylance), in cui specchiarsi e dai quali guardarsi, accettando l’idea di essere comunque condannati ad essere “diversi”.
L’OPINIONE
Tratto dal romanzo Fino all’osso di Camille DeAngelis, Guadagnino sceglie di citare l’horror, da lui già celebrato come metafora nel remake di Suspiria, per un magistrale ritratto delle contraddizioni sociali e dell’impossibilità di essere amati e di provare vero amore, in quegli anni ’80 americani che tanto somigliano al mondo di oggi. Il cannibalismo diviene metafora di una diversità imposta dal mondo in cui viviamo, mentre l’orizzonte del futuro e delle speranze si assottiglia fino a scomparire. La capacità di Guadagnino di dirigere al meglio gli attori e di raccontare per immagini contribuiscono a conferire a Bones and All la patente di grande film. Anzi, di “un film che conta”, come ha detto Chalamet a Venezia, per il quale la pellicola segna il debutto anche in veste di produttore.
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Il cannibale più celebre del cinema è senza dubbio l’Hannibal Lecter protagonista de Il silenzio degli innocenti. Ma Bones and All sembra più vicino a film come Un uomo da marciapiede nella capacità di descrivere il disagio degli esclusi cronici dal sogno americano.
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