Mattoni d’oro: i film d’autore più noiosi della storia

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A ciascuno di noi sarà capitato varie volte nelle vita di trovarci dinanzi un film che non ha catturato la nostra attenzione o, peggio, che ci ha costretto a contorcerci sulla poltrona e farci guardare l’orologio ogni cinque minuti o, addirittura, ad appisolarci: anzi, potremmo dire che ciascuno di noi ha il suo personale “cine-mattone”, perché non sempre la noia può considerarsi un fattore oggettivo, essendo riferibile alla propria estrazione culturale e sociale e anche all’età, o allo stato d’animo, in cui siamo incappati nella visione del “micidiale” titolo.

Pertanto la lista dei film uggiosi, anche se in rete sono riscontrabili classifiche varie, è certamente smisurata e molto relativa. La nostra solita giuria composta da undici selezionati Catecumeni Yeeeuuuch ne ha individuati diversi, per poi soffermarsi su quelli appartenenti alla categoria del “cinema d’autore” (troppo facile sarebbe stato pescarli nel calderone dei “trash pics”) e ce ne propone quattro, di cui due realizzati nei ruggenti anni Settanta, uno molto recente e un altro che appartiene al “tesoretto” degli “art films”.

Cominciamo proprio da quest’ultimo, ovvero Empire (1964) di Andy Warhol: pur trattandosi di una provocazione artistica, più che di un “film” vero e proprio, consiste in un unico metraggio rallentato di otto ore e cinque minuti dell’Empire State Building di New York. E’ stato filmato adoperando 24 fotogrammi al secondo; nonostante ciò, ne vengono riprodotti solo 16: di conseguenza, sebbene siano state impiegate 6 ore e 36 minuti per realizzarlo, il film dura 8 ore e 5 minuti quando viene riprodotto. Non esistono versioni abbreviate della pellicola. Nel 2005 è stato interamente proiettato su una facciata del Royal National Theatre di Londra.

Empire

Incontriamo poi La recita (1975) di Thodoros Anghelopulos. Durata: 230 minuti. Considerato (cfr. il Dizionario dei Film) un “punto di arrivo del rinnovamento formale degli anni Sessanta e Settanta”, nonché “uno dei capolavori del cinema contemporaneo”, potrebbe anche tramutarsi nel titolo che vi farà capire il vostro limite di resistenza dinanzi a uno schermo, cogliere appieno il concetto “ghezziano” del “tempo-cinema sprecato”. Il film racconta delle peregrinazioni di un gruppo di attori girovaghi che mettono in scena il dramma di Peresiadis Golfo la pastorella e contemporaneamente vivono la storia della Grecia dal ’39 al ’52. Se all’uscita dal cinema non desiderate altro che correre in libreria a cercare Golfo la pastorella, allora neanche il Dottor Freudstein di Lucio Fulci potrà salvarvi, se invece provate il desiderio di scappare dalla sala e di baciare la cassiera sulla bocca gridando “La vita è meravigliosa!”, il vostro destino di Catecumeni Yeeeuuuch sarà segnato per sempre.

La recita

Camminacammina è poi un film del 1983 diretto da Ermanno Olmi e interpretato da attori non professionisti. Durata: 171 minuti. Il regista bergamasco elabora la storia di un astronomo e di un suo discepolo che insieme a molti altri abitanti di un paese, seguendo una stella, si mettono in viaggio alla ricerca del Salvatore. Nel lungo cammino, che non tutti riusciranno a portare a termine, si uniscono altre due carovane. Tutti temono l’agguato delle truppe di un astioso imperatore e il finale è amaro, mettendo in luce d’incapacità umana di rapportarsi caritatevolmente (cristianamente) al prossimo. Film amato e parimenti odiato, è iscritto ormai a pieno titolo nella lista dei film maledetti (invisibile da tempo), è specchio della degenerazione del potere e dell’élite intellettuale al suo servizio. Presentato fuori concorso al 36° Festival di Cannes, ebbe poi una vita brevissima nel circuito delle sale.  Chi scrive, all’epoca adolescente, ne ricorda ancora l’inenarrabile tedio avvertito durante la visione e la durata molestamente “infinita”.

Camminacammina

Chiude il “florilegio” di titoli, Song to Song (2017) di Terrence Malick. Durata: 129 minuti, molto meno della media dei film di questo regista, anche se originariamente era di 8 ore. Bollato da una stroncatura arcigna di “Variety” (“Malick farebbe meglio a prendersi un’altra pausa di vent’anni prima di fare il prossimo film”), anche per molte altre testate di cinema è “quasi un’autoparodia involontaria”, con un cast di divi allo sbaraglio, accavallando situazioni inerti e dialoghi pomposi e/o rarefatti all’insegna del “chi siamo e dove stiamo andando”. Sarà un film troppo avanti o troppo indietro? Ai posteri l’ardua sentenza, che magari cercheranno di diluire il quantitativo esagerato di noia, rinvenendo, tra flussi di coscienza e di canzoni, luci al momento sopraffatte da diverse ombre.

Holy Socks, d’altronde era il sommo Albert Einstein ad asserire: “Nulla è assoluto, tutto è relativo!”

Song to Song