Le metamorfosi di Ovidio oggi

Ciak intervista Giuseppe Carrieri, autore di Le metamorfosi, presentato in anteprima ad Alice nella città alla Festa di Roma, ora in cerca di distributore. Tra fiaba e documentario, fantasia e realtà, mostra una Napoli-mondo poco vista e poco conosciuta

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«Ovunque regnava il silenzio e l’umanità tutta sembrava dare l’idea di essere ormai definitivamente sparita…».

Non è l’Italia ai tempi del Coronavirus, ma l’incipit di Le metamorfosi di Giuseppe Carrieri, ispirato a Ovidio e prodotto da Natia Docufilm con Rai Cinema e l’Università IULM di Milano, dove Carrieri è docente (Laboratorio avanzato di regia cinematografica).

È tra i film più interessanti e spiazzanti visti nella sezione Alice nella città alla Festa del cinema di Roma. Si tratta di un’opera potente, anomala e poco etichettabile. Prende spunto da Le metamorfosi del grande autore latino, per poi intrecciare fantasia, immaginazione, animazione, documentario e realtà.

L’opera di Ovidio fa da ossatura a un film che mette a fuoco certi luoghi e certi fatti di cronaca poco conosciuti di oggi e suggestioni di un prossimo futuro.

Nel prologo terra e cielo appaiono rovesciati, in bianco e nero, con movimenti di macchina che poi diventano vorticosi a ribaltare ordine e punti di riferimento. Regna il caos. Vediamo macerie, detriti e polvere, la carcassa di una balena. Tutto appare fatiscente ed è rafforzato dalla voce narrante (di Marco D’Amore) che, in dialetto napoletano, parla di disordine totale e di confusione in ogni dove.

Poi alcune creature umane mascherate in stile tragedia classica si muovono in un paesaggio di neve. Ci introducono a tre storie ricostruite e recitate, ma realmente accadute…

Mi racconta la genesi del film e come ha lavorato sulla compenetrazione fra realtà e fiaba, verità e sogno?

La mia prima strada nel cinema è stata il documentario. Mi interessava mettere a fuoco la realtà. Mi sono “autoeducato” alla micro troupe, al protagonista in strada, alle location reali, un po’ come fossimo in un’epoca postbellica. La differenza principale era l’assenza di pellicola e l’uso delle camere di ultima generazione. Il mio film precedente In utero Srebrenica(candidato al David di Donatello, nda), ad esempio, è un film girato con una “normalissima” Canon e una troupe di quattro persone.

Nella genesi di Le metamorfosi c’è dunque il mio percorso documentaristico ma anche l’urgenza di uscire dall’“abitudine”. Dopo tanti anni di documentario percepisci i limiti del “genere”. Ho pensato che la realtà poteva essere trasfigurata attraverso dei modelli preesistenti.

In campo c’è una Napoli poco vista, poco conosciuta.

Napoli è il deposito di storie per eccellenza. È diventata la città più venerata cinematograficamente. Qualsiasi regista ha messo piede a Napoli, perché c’è una sorta di “atmosfera cinematografica”. Ha anche le sue zone d’ombra più inquietanti, ma ha una sorta di universo contemporaneo che mi riporta a New York, ma anche a Calcutta o alle Favelas brasiliane. Napoli è la città che ha anticipato l’emergenza dei rifiuti che oggi è questione ricorrente. Ha anticipato un’idea di Apocalisse. Non nasconde le sue ferite, è una città onesta. Non volevo fare però il racconto delle miserie della mia città. Per uscire dagli schemi ho attinto al mito.

Perché Le Metamorfosi di Ovidio?

Apparentemente con Napoli non c’entrano nulla, in realtà hanno una forte attinenza con il nostro tempo. Ovidio raccontava i barbari in arrivo e quindi trasfigurava un Impero finito con il Mito, allo stesso tempo però parla di archetipi umani assolutamente riscontrabili oggi.

Come ha trovato le tre storie tratte da fatti di cronaca?

È come se mi avessero trovato loro. Per quanto riguarda i campi rom, ero a Napoli per un progetto formativo: documentare il campo rom di Cupa Perillo. Da lì la prima storia della bambina che vive nel campo e ha un padre in carcere.

La storia del pescatore di frodo che vende il pesce che sa di aver pescato in una sorgente avvelenata l’ho scoperta dalla cronaca di un lavoratore abusivo di Castel Volturno. È presa dalla cronaca anche la storia della prostituta morta di freddo sulla Domiziana. “Cioccolatino”, l’uomo che ama la ragazza venuta a mancare, non ha soldi e non ha un’“identità”, eppure cerca un modo per dare comunque degna sepoltura all’amata.

Erano storie talmente impastate di mito, impossibilità, eccesso che ho pensato andassero raccontate in modo diverso dal documentario e dalla cronaca.

Cosa è reale e cosa ricostruito nel suo film?

Sono reali le storie e certi dettagli del paesaggio. Per il resto abbiamo ricostruito e messo in scena il racconto cinematografico. La carcassa di balena che si vede all’inizio del film, ad esempio, viene da una leggenda locale ma è “finta”, ricreata. Le macerie a Castel Volturno e Torre Annunziata sono prese dalla realtà, fotografate e filmate  in loco. In Irpinia c’è una zona con una sorgente di gas mefitici. Non è percorribile dall’uomo, ma ci sono cani, gatti, volpi, cinghiali morti, avvelenati dai gas…

Come ha scelto i “non attori” protagonisti?

Tutti i protagonisti sono persone radicate nel territorio. “Cioccolatino” è un vero lavoratore alla giornata. È un profugo del Camerun che vive a Battipaglia e raccoglie pomodori. La ragazzina, quando l’ho scelta, aveva sette anni e il padre in carcere. La donna magra e scarna che si vede alla fine è stata in passato spacciatrice di droga a Scampia in un’epoca in cui Napoli era il centro europeo della droga…

Ho cercato volti, persone, corpi che portassero su di sé storie analoghe a quelle narrate. Persone capaci di bucare lo schermo con il proprio vissuto.

Come ha coinvolto Marco D’Amore come voce narrante del film?

Credo sia molto efficace la sua voce. Volevo che la parlata fuori campo fosse in napoletano arcaico. Ho pensato subito a lui perché oltre a essere un attore è uno studioso e ha la capacità tonale di farsi poeta. Volevo una voce talmente potente che riuscisse a dare un’anima a un personaggio che non c’è.

È il primo film prodotto dall’Università IULM di Milano?

Sì, è nato proprio come progetto per coinvolgere gli studenti di cinema. Non doveva trattarsi solo di “fare un film”, ma di un’esperienza: portare gli studenti in luoghi che non avevano mai visto. Luoghi come la periferia Nord di Napoli e le montagne di monnezza, scarti e rifiuti…

Ci sono state situazioni di pericolo?

Siamo riusciti a schivarle. Nella zona dei rom avevamo un legame di protezione con un’importante famiglia del luogo. La scena più pericolosa è stata probabilmente quella che si vede all’inizio del film in cui madre e figlia chiedono l’elemosina in metropolitana. Noi giravamo con una telecamera nascosta dietro di loro, ma ci sono state reazioni violente da parte di alcuni presenti. La zona più rischiosa però è stata Castel Volturno perché quella è davvero terra di nessuno…

Il film ha una distribuzione?

Non ancora, speriamo di trovarne una al più presto. Alle proiezioni ad Alice nella città alla Festa di Roma c’erano molti giovani ed è piaciuto. Spero si possa proiettare nelle sale prossimamente…