Viggo Mortensen: “Ogni generazione fa i conti con la discriminazione, è sempre il momento giusto per un film come Green Book”

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Ha rischiato di non vedere il proprio nome tra quelli degli attori candidati all’Oscar per uno stupido incidente durante la conferenza americana di Green Book, dove ha scelto un termine dispregiativo sui neri, ma solo per condannare chi ne fa uso. Ma se esiste un attore onesto, rispettoso, attento e sensibile questi è Viggo Mortensen.

A lui Peter Farrelly ha affidato il ruolo di Tony Vallelonga, detto Tony Lip, che nell’America del 1962, quando il club di New York dove lavora come buttafuori chiude per lavori di ristrutturazione, accetta di fare da autista al pianista afroamericano Don Shirley (Mahershala Ali, rivale di Viggo agli Oscar 2017) accompagnandolo in tour nel Sud degli
Stati Uniti. Il titolo del film fa riferimento a The Negro Motorist Green Book, una guida su
come muoversi negli Stati americani in cui era in vigore la segregazione razziale. Il viaggio sarà all’origine non solo di una grande amicizia tra i due, apparentemente molto distanti, ma di una importante crescita personale.

Abbiamo incontrato l’attore all’ultima Festa del cinema di Roma, di nuovo in perfetta forma
dopo gli oltre venti chili presi per assomigliare a Tony Lip. «All’inizio ero molto nervoso, non
ero sicuro che interpretare un italoamericano fosse una buona idea», confessa Viggo. «Ma
quando ho conosciuto Nick Vallelonga, figlio di Tony e cosceneggiatore del film, e tutta la
sua famiglia, mi sono tranquillizzato. Ho fatto loro visita a New York e in New Jersey, dove
mi hanno mostrato tante fotografie, mi hanno raccontato di Tony e mi hanno fatto mangiare fino a farmi scoppiare. Ho osservato il loro modo di parlare e di muoversi, ho imparato a parlare un miscuglio di americano, napoletano, siciliano, calabrese. Per ingrassare poi mi è bastato seguire la dieta di casa Vallelonga».

Ogni volta che interpreta un personaggio porta sul set qualcosa di suo. Questa volta?
Un paio di camicie, ma indossavo la catena di Tony, così come Linda Cardellini, che interpreta la moglie, aveva i gioielli della vera Dolores. Mi sono immerso nella cultura di Tony, ascoltavo la musica che piaceva a lui, ho trascorso molto tempo nel suo quartiere e Nick era ogni giorno sul set, pronto a sciogliere i miei dubbi. La gente non conosce Tony Lip, anche se lo ha visto interpretare qualche film di Scorsese e Carmine Lupertazzi nella serie I Soprano, ma io mi sentivo proprio come quando mi sono accostato a Burroughs e Freud, con un grande senso di responsabilità, soprattutto verso la famiglia Vallelonga. E quando vedevo Nick commuoversi fino alle lacrime su set, sapevo di aver fatto un buon lavoro.

Peter Farrelly ci aveva abituato a un altro genere di commedia. Green Book, cinque candidature all’Oscar, ci ha colto di sorpresa.
Ha sorpreso anche me. Quando ho letto la sceneggiatura, una delle migliori che mi siano
mai capitate tra le mani, mi sono accorto che si trattava di un film diverso da quelli che
Peter aveva precedentemente scritto. È molto divertente, lui è un vero maestro nel gestire i
tempi comici, e mi ha fatto diventare un attore brillante. Mi fa ridere soprattutto il contrasto tra due uomini, così diversi tra loro. Ma poi la storia comincia a prendere una piega diversa, diventa struggente e coraggiosa. Il profondo legame di amicizia tra il rozzo e vorace autista e il raffinato musicista nasce dal fatto che devono superare insieme molti ostacoli, al di là di pregiudizi, odio e stereotipi. Ogni generazione fa i conti con la discriminazione, è sempre il momento giusto per un film come Green Book. Bisogna lavorare su se stessi, sul linguaggio da usare, sul comportamento da adottare.

Dopo Captain Fantastic l’avevamo persa di vista.
Negli ultimi due anni ho perso entrambi i miei genitori e insieme a mio fratello ho speso
molto tempo con loro prima che se ne andassero. Qualcuno forse lo vede come tempo
sottratto alla propria vita, ma per me è stato importante farmi coinvolgere dal loro declino.
Fortunatamente posso permettermi di aspettate il progetto giusto. Ho scritto molto, ho
appena pubblicato con la mia Perceval Press una nuova collezione di poesie, in spagnolo,
dal titolo Lo que no se puede escribir, che ha un doppio significato: “Quello che non è possibile scrivere” e “quello che non si dovrebbe scrivere”. Parlo di mortalità, delle mie memorie di bambino, della vita, insomma.

E sta per debuttare come regista.
Dopo qualche tentativo andato male, questa volta ci siamo, ho una sceneggiatura e la metà
dei soldi necessari. Ho già girato qualcosa, ma sarò di nuovo sul set a febbraio. Il film si
chiama Falling e racconta il rapporto tra un padre ottantenne e un figlio cinquantenne, nel
2008. Questa volta io sono soprattutto figlio, ma anche l’insolito padre di una bambina di 8
anni. E il mio partner è un uomo. Molte scene sono ambientate nel passato, del quale padre e figlio hanno memorie e punti di vista distanti. La pensano diversamente anche sulle ragioni che hanno spinto la madre ad andarsene di casa, un evento che ha condizionato la relazione tra loro. Invecchiando poi il padre comincia a soffrire di demenza senile, a dimenticare, a confondere il presente con il passato. Succede che una relazione importante andata male condizioni tutta la vita, no?

Ha appena compiuto 60 anni, che effetto fa?
Mi ero appena abituato a essere un cinquantenne, che eccoci daccapo!