George Clooney: «Racconto il mondo che si autodistrugge» – Intervista

Intervista a tutto campo all'attore-regista-produttore in occasione dell'uscita di "The Midnight Sky" dal 23 dicembre su Netflix: dall'epidemia agli anni che passano, dalle prospettive da attore ai tre progetti che seguiranno.

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«Mi dispiace per il ritardo, ma ho avuto un blackout in casa e ho dovuto aspettare che il generatore riportasse tutto alla normalità prima di poterti telefonare». Ecco, quando alle otto di sera ricevi questa chiamata da George Clooney, che si scusa per aver sforato di trenta minuti l’orario dell’appuntamento, hai l’ennesima prova che stai per intervistare una star atipica. Tanti suoi colleghi, meno importanti e famosi di lui, sono capaci di farsi aspettare molto più a lungo e senza motivi validi (non si erano svegliati, non avevano voglia di scendere dalla camera dell’albergo megagalattico che li ospitava, avevano litigato con il/la partner e/o l’ufficio stampa), Clooney invece, dopo le scuse per il ritardo, si premura di conoscere la progressione del virus in Italia («sta risalendo anche da voi vero? Qui a Los Angeles siamo tutti bloccati in casa con la mascherina, la situazione è critica»). Quella che nei rituali giornalistici diventa troppo spesso una performance egomaniaca, esclusivamente autopromozionale, si trasforma così in un rilassato colloquio a tutto campo, dove il suo lavoro di attore e regista in The Midnight Sky (dal 23 dicembre su Netflix), non è l’unico focus della conversazione, ma si inserisce in un quadro più ampio, dove la creazione artistica e la vita politica e sociale si fondono in un affresco più grande, all’insegna dell’empatia.

Tratto dal romanzo di Lily Brooks-Dalton Good Morning, Midnight, il film è ambientato nel 2049 e la Terra è sconvolta da un cataclisma non meglio specificato, che l’ha resa praticamente inabitabile. In una base artica è rimasto il solo Augustine (Clooney), uno scienziato malato terminale che ha deciso di trascorrere i suoi ultimi giorni di vita là dove ha sempre lavorato, tentando di mettersi in contatto con l’astronave partita in missione per verificare che una luna di Giove, da lui scoperta, fosse abitabile per i terrestri. L’astronave, con un piccolo equipaggio composto da Felicity Jones, David Oyelowo, Tiffany Boone, Kyle Chandler e Demián Bichir, sta facendo ora ritorno verso la Terra, ma gli astronauti non sanno che il pianeta è stato abbandonato e non capiscono perché i loro tentativi di comunicare con la casa-madre continuino a fallire. In questa già complicata situazione Augustine scopre di non essere solo come pensava e scopre Iris (Caoilinn Springall), una bambina che, nel caos dell’evacuazione, è evidentemente stata abbandonata per errore nella base e di cui ora deve trovare il modo di prendersi cura.

The Midnight Sky nasce come un film di fantascienza, non trova che, con quello che sta accadendo nel mondo, ora sembri quasi un documentario?

«Da quando ho ricevuto la sceneggiatura a oggi le cose sono molto cambiate. Inizialmente il film era semplicemente una storia emozionale, che mostrava il percorso di redenzione del protagonista. Però, ancor prima che dilagasse la pandemia, nel mondo c’era già una pesante vena autodistruttiva, con gli sconvolgimenti del clima e una rabbia sempre più diffusa. Le malattie dell’odio, degli scontri e delle guerre già ci stavano distruggendo e, anche se il virus non è tecnicamente prodotto dall’uomo, questa devastazione del pianeta è sicuramente colpa nostra. Nel film c’è il dolore per quanto gli uomini siano capaci di infliggersi l’uno l’altro e per quanto sia facile perdere tutto quello che finora davamo per scontato».

UN MONDO ALLO SBANDO

I governi sembrano tutti, chi più chi meno, spiazzati dall’emergenza. Non trova?

«Il virus è stato affrontato in modo inadeguato dai nostri leader, che si sono preoccupati solo delle ricadute del contagio sull’economia. Negli Stati Uniti la situazione è terribile, eppure c’è ancora chi blatera di “perdita della libertà” solo perché gli si chiede d’indossare la mascherina. Ma di quale libertà parlano? La nostra libertà finisce dove comincia quella degli altri: tutti siamo liberi di ubriacarci fino cadere svenuti, ma se poi ci mettiamo al volante ubriachi commettiamo un crimine; possiamo anche fumare fino a riempirci di catrame i polmoni e morire di cancro, ma non possiamo fumare addosso ad altre persone. Con la mascherina è lo stesso: chi non vuole indossarla non esca di casa, altrimenti commette un reato!».

Lei come pensa si uscirà da questa crisi?

«Per riavere indietro il nostro mondo, per tornare liberamente al cinema, ai concerti, a scuola e al lavoro c’è solo un modo: in attesa del vaccino bisogna che si creino dei test rapidi ed efficienti per tutti. Prima di entrare in un qualunque luogo pubblico devi poter fare un test che in due minuti dica se sei sano, o meno. Luce rossa torni a casa, luce verde sei libero di muoverti e al sicuro dal contagio. Non vedo altri modi».

GEORGE FOR PRESIDENT?

Un pessimo attore come Ronald Reagan è diventato presidente degli Stati Uniti. Non crede che in futuro sarebbe ora che un ottimo attore come lei corresse per la Casa Bianca?

«Guarda, quando ho scritto i discorsi del candidato in Le Idi di Marzo gli ho fatto dire tutte cose in cui credevo e credo, perché l’impegno sociale e politico fa parte del mio Dna, eppure non vorrei mai diventare presidente».

Per quale motivo?

«Il processo elettorale è totalmente distorto. Il fatto che per correre alla Casa Bianca sia necessario un budget di quattro miliardi di dollari è pura follia: per sperare di essere eletto devi trovare finanziatori che coprano questa spesa e questo vuol dire che dopo non sarai mai libero di decidere e dovrai sempre rispondere delle tue scelte a chi ha sborsato queste cifre per te. Dirigendo un film mi assumo la responsabilità di fare quel che voglio, come presidente invece avrei troppa gente a condizionarmi e questo per me è inaccettabile.

 

SEX SYMBOL? NO GRAZIE

Tornando al film: in The Midnight Sky Augustine malato, coi capelli rasati e il barbone, è un personaggio con cui sembra voler distruggere la sua immagine di sex symbol. È così?

«(Ride) È che volevo essere il barbone calvo più sexy del pianeta! Scherzi a parte, come attore cerchi sempre dei buoni ruoli e quello di Augustine è ottimo. Nella prima parte è stato come recitare in un film muto, dovevo far passare tutte le emozioni senza dialoghi: una bella sfida. Ho anche perso dieci chili per essere un credibile malato terminale e questo ha aiutato la mia performance d’attore, ma ha complicato il lavoro di regista, visto che mi serviva una grande energia per gestire un set così complesso e la perdita di peso mi aveva indebolito».

Le riprese in Islanda devono essere state particolarmente faticose.

«Noi abbiamo girato per quattro mesi e mezzo, con una pausa durante le feste natalizie, tra ottobre 2019 e metà dello scorso febbraio. In Islanda il sole c’era soltanto dalle 11.30 alle tre del pomeriggio e per la sequenza della tempesta di neve abbiamo dovuto aspettare che si alzasse il vento. Il problema è che quando il vento è arrivato era come stare nel mezzo di una tempesta di sabbia: senza maschera non vedevo nulla, potevo girare solo 30 secondi alla volta, poi qualcuno mi prendeva per mano e mi portava al riparo per scaldarmi e sciogliere il ghiaccio che mi si era formato addosso. Non era difficile recitare, ma il problema era cercare di sopravvivere!».

Quattro mesi e mezzo di riprese non sono molti per un film del genere. Come ha fatto?

«Il nostro è un film a grosso budget, ma non così grande come quelli stanziati di solito per questo tipo di opere. La velocità con cui abbiamo lavorato è stata merito dell’impegno e della collaborazione di tutti. Ti basti sapere che tutte le sere il montatore, che stava nella stanza accanto alla mia, lavorava sul girato della giornata e me lo mostrava. In questo modo sapevo subito se c’era stato qualcosa che non andava e avevo la possibilità di rigirare la scena incriminata immediatamente il giorno dopo. Serviva l’aiuto di tutti per rispettare la tabella di marcia».

GRAVITY INCONTRA THE REVENANT-REDIVIVO

Lei aveva recitato nello spazio in Gravity e il suo sceneggiatore Mark L. Smith ha firmato un altro film sulla sopravvivenza tra i ghiacci come The Revenant. Crede che questo abbia influito su The Midnight Sky?

«In effetti in The Midnight Sky ci sono entrambi gli aspetti di quei film, la cosa più delicata era dosare l’equilibrio tra la parte spaziale (tutta girata in studio) e quella terrestre dove, a parte qualche scena ricostruita in studio (come quando finisco sott’acqua), eravamo in condizioni estreme. Lavorando con Alfonso Cuarón ho capito che, una volta che sei nello spazio non esistono un sopra, o un sotto, quindi la cinepresa può essere ruotata e capovolta liberamente, facendolo con moderazione per non far star male gli spettatori. Lui è stato bravissimo in questo».

George Clooney in “Gravity”

Le riprese “spaziali” implicano un gran numero di effetti speciali. È più difficile girare queste scene come attore, o come regista?

«Come regista. Sul set di Gravity Alfonso mi diceva semplicemente “guarda dove punto questa luce rossa, lì c’è la navicella”, per me era facilissimo. Come regista invece ti trovi in una stanza vuota e devi immaginare tutto quel che c’è, ma che apparirà solo sul monitor, per far capire agli attori come muoversi. D’altra parte quando Alfonso ha girato Gravity ha utilizzato una tecnologia che all’inizio delle riprese ancora non esisteva, mentre per me è stato più facile proprio grazie al suo lavoro».

Invece non ha utilizzato la motion capture, vero?

«In realtà avevamo provato a usarla in un primo momento, quando volevamo mascherare il fatto che Felicity Jones fosse incinta. Poi ci è sembrato più naturale far entrare la sua inaspettata gravidanza nella narrazione e abbiamo modificato la sceneggiatura. Devo confessare che non sono un grande fan della motion capture: quello che ha fatto Andy Serkis nel fantasy è straordinario, ma se si applica questa tecnologia a un contesto realistico mi fa pensare troppo alle bufale e alle truffe del Deepfake».

UNA BAMBINA STRAORDINARIA

Lei recita per buona parte del film con al fianco una bambina. È stato difficile?

«Caoilinn è stata straordinaria e mi ha aiutato moltissimo. Non aveva mai recitato in vita sua, eppure con lei sul set era sempre “buona la prima”. Le dicevo “Fammi una faccia triste e spaventosa” ed era subito perfetta; quando gli altri attori chiedevano più tempo per preparare le loro scene replicavo sempre: “Imparate da questa ragazzina!”. È stata veramente pazzesca, è davvero nata per recitare e sono sicuro che avrà una carriera strepitosa».

Quindi non è vero che recitare con i bambini e gli animali è un incubo?

«Aspetta, recitare con Caoilinn è stata una benedizione, perché lei ha dato forza al film e con la sua presenza ha saputo arricchire anche il mio ruolo, ma questo è un caso e una straordinaria eccezione. Io sono stato il pediatra Doug Ross per sedici anni in E.R. e ti assicuro che lì i bambini con cui ho dovuto interagire erano veramente terribili».

TRE PROGETTI CONTRO L’INCERTEZZA DEL FUTURO

Dopo questo film ha già in programma altri progetti, o si concede una pausa?

«Veramente di progetti in preparazione ne ho già tre. Il primo è The Tender Bar, tratto dal romanzo del 2005 di J.R. Moehringer intitolato The Tender Bar: A Memoir. Il film è la storia di formazione di un ragazzo il cui padre è un disc jockey di New York City. Quando non sente più la voce del padre alla radio il ragazzo si sente perso, ma trova rifugio nel bar all’angolo e fa amicizia con lo zio e altri adulti, che lo accolgono nella loro cerchia».

Gli altri due film quali sono?

«Il secondo è The Boys in the Boat, tratto dal romanzo storico di Daniel James Brown pubblicato nel 2013 The Boys in the Boat: Nine Americans and Their Epic Quest for Gold at the 1936 Berlin Olympics. È una storia vera, racconta la vicenda della squadra di canottaggio otto con della University of Washington, che ha partecipato nel 1936 alle Olimpiadi di Berlino battendo di un soffio, sotto gli occhi di Hitler, gli equipaggi italiani e tedeschi. Per il terzo progetto invece ho un accordo con la Metro-Goldwyn-Mayer, un film tratto dall’articolo di Alex Pappademas Saint John dedicato a John DeLorean il fondatore della casa automobilistica DeLorean Motor Company».

In questi film lei recita, li dirige, o entrambe le cose?

«Ormai ho sessant’anni (N.d.A.: in realtà li compirà il prossimo maggio) quindi ormai posso essere solo il regista, non mi fanno più recitare, sono troppo vecchio!».

Ma come? Clint Eastwood recita ancora e lei vuole smettere?

«Ma io non sono Eastwood».

Va bene, scommetto che comunque la rivedremo presto sullo schermo. Quando pensa che inizierà a girare questi film?

«Questo è un mistero! Noi stiamo facendo tutto quanto è necessario per entrare in produzione, ma non ci è dato sapere quel che succederà con la pandemia e quando potremo davvero iniziare. È un brutto periodo e siamo tutti giustamente spaventati».

Non lo dica a me, da quando è iniziata la pandemia non mi sono più tagliato i capelli per evitare rischi inutili e ora sembro un vecchio freak degli anni ’70.

«Non solo tu, ormai sembriamo tutti usciti da un concerto dei Grateful Dead!».