Conversazione con Daniele Vicari

Orlando, il nuovo film di Daniele Vicari, ha debuttato al 40. Torino Film Festival ed è adesso in sala. L'occasione per una conversazione

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Daniele Vicari

L’uscita nelle sale del suo nuovo film, Orlando, dal 1° dicembre al cinema grazie a Vision ed Europictures, ci ha offerto l’occasione di fare una lunga conversazione con Daniele Vicari, un regista che al cinema dà del tu per molte ragioni. Dal punto di vista del contenuto, prima di tutto, perché Vicari ha raccolto le lezioni dei grandi cineasti del cinema italiano del passato, a partire da quell’Ettore Scola a cui il film dedicato. Vicari racconta la gente e quello che succede in un’Italia e in un mondo in cui il concetto di valori sembra essere fuori moda, dando ai suoi protagonisti una dignità d’altri tempi, come l’Orlando interpretato magistralmente da Michele Placido in questo nuovo film.

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Da Diaz a Sole Cuore Amore, passando anche per il film per la tv Prima che la notte, che racconta la storia del giornalista siciliano Pippo Fava, Vicari negli ultimi dieci anni ha scritto un diario cinematografico del nostro paese fondamentale. E lo stesso ha fatto con i suoi documentari, da Il mio paese a La nave dolce, e con il suo romanzo Emanuele nella battaglia, inchiesta sulla morte di Emanuele Morganti, tragico fatto di cronaca che è anche specchio di una società allo sbando.

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Ma in cui Vicari ha ancora speranza, e questa tensione verso un futuro migliore Daniele l’ha sempre messa in scena usando la macchina cinema in maniera audace sin dall’esordio, Velocità massima, film sulle corse d’auto clandestine nel sottobosco romano girato con la tecnica di un veterano. I movimenti di macchina e l’uso delle focali fanno parte della narrazione, spiegano più delle parole spesso, e denotano un amore per il cinema che tradisce sempre il Vicari critico appassionato, quello che ha scritto Il cinema: l’immortale, il suo breve ma densissimo saggio su un’arte che è ancora e sempre sarà un’invenzione del futuro.

Di questo e di altro abbiamo parlato con Daniele Vicari in una lunga conversazione.

Daniele, cosa ti ha spinto a raccontare una storia che nel panorama cinematografico contemporaneo sembra una sorta di UFO, ma che in realtà è molto contemporanea?

Immaginando questo film, ho considerato una cosa che ho capito da un po’ di tempo e che poi, durante la pandemia, si è manifestata più chiaramente. I nostri nonni, ma anche quelle persone oggi in età molto avanzata, fanno delle cose che a noi adulti sfuggono, ma che i bambini, che non hanno una visione ideologica delle cose, intuiscono. È una forma di comunicazione basata per entrambi su dei bisogni e che dà luogo a una forma di amore puro. Per i nonni c’è un bisogno di vita, per i bambini un bisogno di futuro.

Ho fatto questa considerazione e ho pensato che mio nonno, i miei genitori, le persone anziane che ho conosciuto, non si ponevano domande sul presente, almeno non nel modo in cui me le pongo io. Io sono cresciuto in un paesino di montagna, dove nessuno si è mai chiesto che cos’è l’Europa, perché non si sente, è un luogo lontanissimo e solo l’emigrazione ne offre una. Allora questa storia l’ho raccontata attraverso un sentimento e un conflitto tra un nonno e una bambina. Due persone apparentemente distanti, ma che hanno lo stesso problema, cioè io chi sono, dove sono e che cosa ne sarà di me? Questo è il cuore del film.

Da quando hai scritto il film a oggi in questa Europa sono successe moltissime cose e il desiderio di connessione tra culture che c’è oggi è un elemento fondamentale che ti fa entrare nella dimensione del viaggio, altro tema portante. Quanto dobbiamo recuperarla questa dimensione dell’essere una cosa sola?

Noi viviamo facendo finta di essere una società coesa, in realtà tutti i giorni misuriamo la distanza tra questa finzione e la realtà. Gli individui nella nostra società sono molto isolati e nessuno lo è più di una bambina o di un vecchio, una persona uscita dal processo produttivo. Quando si incontrano, queste due entità fanno venire fuori la contraddizione di fondo della nostra società, in cui la parola amore è diventata quasi una bestemmia, un’etichetta, mentre l’amore tra due individui così isolati invece è una scintilla pazzesca.

Orlando Daniele Vicari

Penso che se non recuperiamo nella contemporaneità la purezza di questo sentimento non andiamo da nessuna parte. Il cinema per fortuna lo fa, e il cinema italiano racconta la necessità che gli individui si connettano tra loro, ma non racconta l’Europa, il grande contesto in cui siamo immersi, e questo ci fa sentire distante la guerra e le istituzioni europee.

Orlando  dice “non voglio morire a 3000 km da casa”. La percezione che abbiamo è di lontananza assoluta, l’unica cosa che ci tiene uniti è proprio la connessione tra di noi, il termine che hai usato è molto bello, la connessione sentimentale. È per questo che ho pensato di far viaggiare per la prima volta un uomo di 75 anni e in questo viaggio riaprire la sua vita. Perché si può amare anche a 75 anni, anzi, è una necessità profonda. Anche per questo ho tolto la generazione di mezzo, ho tolto tutto quello che si frapponeva tra Orlando e Lyse, perché sono due europei, apparentemente opposti, una vive nel cuore dell’Europa, l’altro nella sua periferia più assurda, ma i loro destini si incontrano e devono misurarsi tra loro.

Parliamo di cinema, che hai definito L’immortale nel bel saggio che hai scritto e che è edito da Einaudi. Perché immortale?

Semplicemente perché lo è. Non facciamo altro che parlare della morte del cinema da quando è nato e ci è sfuggito un dettaglio: il cinema ormai è l’ambiente in cui noi viviamo, lo costituisce, costruisce il nostro immaginario, la nostra quotidianità. Abbiamo tanti dispositivi per guardare immagini: televisore, cellulare, computer, tablet. Basta fare un viaggio in treno, e proprio così nasce l’idea del libro, per rendersi conto che su un vagone ciascuno ha il proprio schermo. Le persone guardano immagini e la scaturigine di questo cambiamento è il cinema, che è diventato talmente gigantesco che non lo vediamo più.

E questo è il problema, non lo vede piu chi lo fa e chi lo giudica o lo promuove, perché è un fenomeno immenso. Ogni anno solo in Europa si producono 1500 film, ma chi può vedere 1500 film l’anno per poterli valutare? Nessuno. il cinema, forse più o oltre che immortale, è incommensurabile e non abbiamo gli strumenti per conoscerlo  e bisogna essere umili di fronte a questa cosa. Dire frasi altisonanti come cinema è morto è fallimentare perché non è vero.

Tornando a Orlando. Michele Placido offre una delle sue migliori interpretazioni in carriera.

Devo dire che è stato un incontro inaspettato e molto bello, perché Michele si è messo completamente al servizio del racconto e di Orlando, lo ha capito profondamente in un percorso che abbiamo fatto insieme. Lo ha restituito con una grande intensità che è un regalo pazzesco per il film.

Orlando, Daniele VIcari e Michele Placido

Avete mai discusso su come girare qualche scena?

No, è stato talmente rispettoso che la cosa mi ha impressionato. Michele è anche un regista importantissimo, ma secondo me ha raggiunto un livello tale che non si è posto proprio il problema. Oltretutto ho girato con una tecnica molto fastidiosa per un attore, perché con i grandangoli che ho usato la macchina da presa gli era a pochi centimetri e devi stare attento a non sbatterci contro. Non c’è nessuna scena statica, non è facile dimenticare la macchina cinema con la cinepresa a 20 cm dalla faccia. Ma Michele è stato perfetto, si è affidato a questo dispositivo che abbiamo messo a punto con il direttore della fotografia Gherardo Gossi che spero abbia dato una cifra caratteristica al film.

Una tua caratteristica è proprio quella di fare qualcosa di nuovo dal punto di vista tecnico in ogni tuo film, una costante evoluzione che poi fa parte del lavoro del regista.

È un approccio diciamo esistenziale, la tecnica non la vedo come immanente, per questo trovo ridicolo il piagnisteo sulle piattaforme, che sono uno strumento straordinario, dobbiamo solo imparare a usarle bene. E la stessa cosa vale sul set, quando hai a che fare con strumenti che possono permetterti di fare delle cose che normalmente non potresti fare.

In generale nei miei film la macchina si muove in relazione all’azione. Nel tempo ho compreso che la cosa fondamentale in un film non è lo stile, ma la forza che in relazione al soggetto  si sprigiona attraverso il linguaggio. Altrimenti lo stile diventa una camicia di forza che fa invecchiare velocemente i film. Infatti, c’è un paradosso nella storia del cinema che certi film d’autore sono terribilmente invecchiati e altri di registi che hanno praticato il cinema con altri mezzi e altri obiettivi hanno una forte modernità.

Orlando era pronto da tempo, stai già lavorando a un nuovo progetto?

Sto scrivendo tre sceneggiature. Non ho ancora chiarissimo quale di queste prenderà il volo per prima, però ti posso dire che hanno tutte a che fare con un desiderio che per me è sempre più forte: rompere le barriere tra il nostro passato, presente e futuro.

Un tema che fa parte del tuo cinema da sempre penso a L’orizzonte degli eventi, ma anche Il mio paese e Il passato è una terra straniera. È una tua ossessione?

Sono cresciuto in un paese di montagna, ma a casa mia c’era la televisione. Quindi vivevo più o meno come si viveva mille anni fa, ma guardando il mondo attraverso la televisione. Avevo la percezione di un viaggio nello spazio e nel tempo e l’ambiente in cui cresci ti cambia e ti forma. Da qui il discorso sul tempo, sullo sviluppo della tecnologia, la velocità.  L’adeguatezza dei nostri sentimenti e delle nostre aspettative a queste cose chiaramente caratterizza il mio modo di vivere, di pensare, di scrivere e di filmare.