Polite Society, parliamo con Nida Manzoor della sua teenage ninja

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Director Nida Manzoor on the set of her film POLITE SOCIETY, a Focus Features release. Credit: Parisa Taghizadeh / © 2023 FOCUS FEATURES LLC.

LONDRA – L’industria dell’audiovisivo sta cambiando. Il mondo del cinema e delle serie non è più incentrato su una iconografia solo occidentale o solo orientale. Già da alcuni anni la rappresentazione del Meltin Pot culturale ha fatto irruzione nella narrazione mainstream. Il successo di Everything, Everywhere, All at Once ne è la conferma, dall’Inghilterra ne arriva un’altra, che Universal Pictures Italia porterà nelle sale dal 15 giugno, un gustoso miscuglio tra arti marziali, horror e coming of age, con nobili padri che hanno ispirato questo lavoro d’esordio di Nida Manzoor, regista e sceneggiatrice britannica di origine pakistana. Manzoor arriva da quella inesauribile fucina di talento che è il regno della televisione di Sua Maestà, con una serie underground da lei stessa creata e dirigendo anche due episodi di Doctor Who. Polite Society è un film estremamente d’attualità, per molte ragioni di cui abbiamo parlato con la regista stessa nel corso di una chiacchierata in esclusiva per Ciak.

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Arti marziali, manipolazione genetica, ma soprattutto un’adolescente che ha paura di diventare adulta. Polite Society è un grande intreccio di generi e di storie.

Volevo mettere in un solo film tutto quello che ho amato al cinema crescendo. C’è un po’ di horror, ma anche l’action per raccontare la vita di una ragazza adolescente, uscendo dallo schema per cui l’azione è un appannaggio maschile. In realtà l’action è perfetto per esplorare l’universo di una giovane donna che sta andando incontro a dei cambiamenti: il primo ciclo, il corpo che cambia, cose dolorose, come il bullismo di cui si è spesso vittime a scuola. La vita di un’adolescente è segnata da molte violenze, usare l’action per rappresentarla mi sembrava la cosa migliore.

Polite Society: il titolo spiega molte cose.

Ci si aspetta da una donna, soprattutto nella cultura da cui provengo, che viva confortevolmente vestita con una camicia di forza tessuta con comportamenti appropriati, l’essere una brava ragazza, non far arrabbiare nessuno, parlare correttamente, sposarsi e mettere su famiglia. Ma io non mi sono mai sentita così, è la ragione per cui ho voluto mettere in questo film tutto quello che potevo, un esperimento selvaggio con al centro un’adolescente sud asiatica.

La stessa cosa succede in fondo in Everything, Everywhere, All at Once. Non può essere un caso.

Hai ragione. Il film dei The Daniels ha una giovane donna cinese come motore del film, ma al contempo rappresenta la cultura americana, così come la mia Ria è frutto dell’ambiente londinese in cui è nata e cresciuta. L’industria ha finalmente capito che è necessario rappresentare e dare voce a tutti coloro in grado di esplorare la complessità dell’identità contemporanea.

Quando alcuni anni fa ho cominciato a portare la storia di Polite Society ai produttori, tutti mi dicevano che la famiglia protagonista doveva essere bianca e anche il personaggio doveva essere diverso, doveva essere oppressa e sofferente, era l’unica maniera con cui riuscivano a vedere questa storia e la condizione delle donne che provengono dalla cultura sud-asiatica.

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Polite Society

Solo di recente l’industria cinematografica ha deciso di abbandonarsi tra le braccia della diversità culturale. È una questione certamente generazionale, amo essere una donna britannica, ma allo stesso tempo amo le mie radici culturali e il cinema, di ogni genere, dal musical ai western, gli action e Bollywood. In questo film ho cercato di rendere omaggio a John Carpenter e John Waters, i miei registi preferiti e al loro modo di guardare il mondo.

Parlando del riuscire a fare finalmente questo film come desideravi, immagino che avere Working Title come produttore abbia aiutato molto.

Mi ha cambiato la vita. Avevo scritto una serie tv dal titolo We are Lady Parts, una sit-com musicale incentrata su una band punk composta da donne pakistane mussulmane. L’unica a volerla realizzare senza stravolgerla è stata la Working Title. E alla fine lo show è stato un successo.

A quel punto Tim Bevan, uno dei capi della compagnia, mi ha chiesto se avessi una storia per un film, e gli ho presentato questa sceneggiatura folle che avevo nel cassetto da dieci anni. L’ha letta e mi ha detto che dovevo renderla ancora più folle, era evidente che amassi quel miscuglio di generi, quindi perché trattenersi.

Avere un produttore che ti spinge a fare di più e che contemporaneamente ha la forza di sostenere le tue idee non ha prezzo.

Non era facile trovare la giusta protagonista di Polite Society.

Il casting per me è il 70% della riuscita di un film, per questo adotto un processo di selezione molto rigoroso, ma aperto anche a non professionisti. Non è stato facile, finché non ho visionato il video provino di Priya Kansara: era evidente che avesse tutto quello di cui avevo bisogno.

A quel punto ho capito di avere ancora un film, ma prima di sceglierla definitivamente ho voluto essere certa che avesse i tempi giusti per la commedia, ma anche la sensibilità e il talento per esprimere la rabbia repressa di un’adolescente. E poi ci sono state le lezioni di arti marziali e di danza. Alla fine era lei quella giusta.