Pietro vive in città, a Torino, e va in montagna con la famiglia solo per trascorrere le vacanze estive, mentre Bruno è un giovanissimo pastore che tra i monti della Valle d’Aosta ci resta tutto l’anno. I due sono amici sin da bambini, quando trascorrevano le giornate insieme passeggiando tra prati, ghiacciai e sentieri nei boschi.
Vent’anni dopo Pietro, diventato ormai un uomo, torna in alta quota per ritrovare se stesso e fare pace con il suo passato. Ad aspettarlo c’è ancora Bruno, anche lui alle prese con le scelte fatte nella propria vita.
L’OPINIONE
Diretto dai belgi Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, coppia anche nella vita, tratto dal romanzo di formazione di Paolo Cognetti (Premio Strega 2017) e vincitore del Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes, Le otto montagne è la storia di un’amicizia cresciuta forte e selvaggia nel tempo, di un legame fatto di fughe e di ritorni, di figli e di padri da cui allontanarsi e con cui ricucire il rapporto, tra montagne da scalare fisicamente e psicologicamente, alla ricerca di se stessi, per conoscersi e per capire se rimanere fedeli agli altri. Rinunciando alla panoramicità degli scenari, i registi, che traggono ispirazione anche da Narciso e Boccadoro di Herman Hesse, Due di due di Andrea De Carlo, Gente del Wyoming di Annie Proulx e Ferro di Primo Levi, scelgono il formato quadrato per assecondare almeno in parte la verticalità delle montagne e per concentrarsi sul rapporto tra Pietro e Bruno, l’uomo che va e l’uomo che resta, raccontato attraverso episodi brevi ma intensi, incontri decisivi distribuiti nell’arco di due decenni. Marinelli e Borghi, che si ritrovano sul set a sette anni da Non essere cattivo, ci regalano una bella alchimia, ma si fanno notare anche le interpretazioni di Elena Lietti e Filippo Timi. Una durata più ragionevole avrebbe giovato, così come il taglio delle fughe asiatiche di Pietro.
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