Torino Film Festival: su YouTube la masterclass con Mohsen Makhmalbaf

Ospite della quarta masterclass del TFF, l’acclamato regista di Viaggio a Kandahar ha parlato della sua attività di cineasta e di insegnante

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Quarta e ultima masterclass del Torino Film Festival (in diretta YouTube), dedicata al cinema come strumento di cambiamento sociale, in particolare attraverso la formazione delle nuove generazioni di filmmaker: ospite il grande regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, di cui il TFF ha reso disponibili i film The Afghan Alphabet (2002) e Hello Cinema (1995), su MyMovies fino alle 14 di sabato 28 novembre. Il primo, girato (racconta il regista) «con una handycam, in un giorno, insieme alle mie figlie e a mia moglie» ha spinto il governo iraniano ad aprire le scuole ai bambini profughi afghani. Il secondo mette in scena lo stesso Makhmalbaf impegnato a realizzare un film per celebrare i 100 anni di vita del cinema: e dai provini degli aspiranti interpreti emergono verità scomode sulla società iraniana e su «come da una dittatura si possa creare un’altra dittatura». Due esempi, dunque, di cinema che trova la sua ragione artistica ed etica nella volontà di raccontare e cambiare la società. A moderare l’incontro Fedra Fateh (vicedirettrice del TFF) e Vahid Rastgou.

Makhmalbaf, racconta, ha visto il suo primo film a 22 anni: da bambino, infatti, il cinema era bandito in famiglia: «Mia nonna, estremamente religiosa, mi diceva “Se vai al cinema Dio ci manda all’Inferno». Il regista, diventato in adolescenza attivista politico, viene inoltre arrestato a diciassette anni e trascorre i successivi cinque in prigione. L’effetto della prima pellicola su di lui lo definisce «uno shock», ma in senso positivo. È da lì infatti che inizia a prendere forma l’idea di cinema di Makhmalbaf, dove ad essere centrale è una profonda tensione etica che investe tanto l’attività di regista quanto quella di insegnante: nella convinzione che «così come io sono stato cambiato dal cinema, posso cambiare gli altri con il cinema». Per Makhmalbaf infatti non ci sono terze vie o mezze misure, e lo ribadisce agli studenti dell’Università e del Politecnico di Torino che dialogano con lui in collegamento: un regista deve scegliere, deve domandarsi perché vuole fare cinema, se «per diventare famoso, diventare ricco» o invece «per cambiare il mondo». 

Ed è quest’ultima cosa che vuole fare Makhmalbaf con i suoi film. Tanto più avendo a che fare con un mezzo che «arriva a milioni di persone». E tanto più in una società come quella iraniana, dove «genitori, madri, padri, insegnanti, erano tutti dittatori a causa della cultura», dove il modello autoritario era lo stesso dalle punizioni corporali a scuola alle torture in prigione. Radicale e metodico come pochi, Makhmalbaf afferma di aver imparato il cinema da autodidatta, leggendo e annotando da oltre 400 libri ogni argomento su un quaderno diverso: «uno per la recitazione, uno per la sceneggiatura» e via così, trovandosi alla fine «con 200 regole che potevo utilizzar per fare film». Ma guai a pensare che il cinema sia solo teoria o competenza tecnica. Nella sua pioneristica scuola di cinema in Iran c’erano persino dei corsi di bicicletta, di nuoto e di cucina. Perché per un regista, spiega Makhmalbaf, è essenziale «la sicurezza in se stessi, dapprima connessa al suo corpo. Kurosawa diceva “faccio i film con il cuore”, io dico “faccio i film con le ginocchia”».

Gli altri tre pilastri della scuola sono «energia, tolleranza nei confronti degli altri, consapevolezza del mezzo cinematografico». E però, per quanto sia importante quest’ultima, non basta certo sapere di fotografia e montaggio per realizzare dei buoni film: perché un regista maturi un suo punto di vista sul mondo, spiega Makhmalbaf, deve applicarsi nelle «scienze umane», psicologia, storia, filosofia, sociologia, «e poi viene la tecnica». Insomma, una scuola di cinema e di vita a trecentosessanta gradi, coerente con la visione della settima arte professata dal regista, secondo cui il cinema può essere utile alla società in tre modi: come «un viaggio verso l’ignoto», (è il caso, dice, di maestri come Satyajit Ray); come uno «specchio» attraverso cui una società guarda ed emenda se stessa, proprio come quando «ti guardi allo specchio e controlli che il tuo vestito sia a posto» (è il caso, specifica, del neorealismo); e infine «dare luce all’oscurità», ovvero «illuminare aspetti della società che non sono visibili». Quello che puntava lui stesso a fare con il popolo afghano in film come l’acclamato Viaggio a Kandahar, che anticipato il dibattito sorto con l’11 settembre 2001. Una dimostrazione che «attraverso le immagini si possono aprire le frontiere, si può creare empatia».

Un cinema e un metodo di insegnamento naturalmente inviso alla censura del suo Paese d’origine, che lo ha costretto a tenere i corsi in casa propria impedendogli di aprire una scuola ufficiale. Oggi, però, le lezioni di Makhmalbaf arrivano in tutto il mondo, complici anche le nuove tecnologie, tanto più utili, sottolinea il regista, perché permettono anche a categorie discriminate come le donne di realizzare più facilmente i loro film. Tuttavia la contropartita di potersi improvvisare registi grazie agli smartphone e che tanti possono fare cinema «senza avere qualcosa di profondo da raccontare». Perché, ribadisce Makhmalbaf, «il cinema è un linguaggio, non un concetto: ci vuole il cinema più qualcos’altro, altrimenti il tuo cinema è vuoto». 

Il punto, allora, ha ribadito il regista agli studenti che lo hanno interpellato, è sempre avere chiaro il motivo per cui si fa cinema. Senza farsi schiacciare dall’ossessione contemporanea per la competitività: «Il capitalismo ci spinge alla concorrenza, ci dice “sei in ritardo, devi combattere per trovare il tuo posto là fuori, se sei un perdente non c’è un posto per te”. E vedo tanti giovani cineasti ai festival che si sentono depressi perché non hanno vinto. E io dico sempre loro “guarda, c’è un unico concorso nella nostra esistenza, ed è la nostra vita”».