Su un treno per Madrid Julieta ha incontrato l’amore della sua vita, Xoan, pescatore galiziano. I due vanno a vivere vicino al mare e hanno una bambina, Antia. Ma un giorno Xoan muore in barca, durante una tempesta, e Julieta entra in una profonda depressione, alleviata solo dalla presenta della figlia, che però una volta diciottenne l’abbandona improvvisamente. Per dodici anni la madre non ha sue notizie, fino al giorno in cui un’amica della ragazza rinnova in lei la speranza di poterla rintracciare. Julieta comincia così a scrivere una lunga confessione nella quale rivela alla figlia tutto quello che non le aveva mai detto prima.
In concorso a Cannes, il film che segna il grande ritorno di Almodóvar, dopo il fiacco Gli amanti passeggeri, è sceneggiato dal regista a partire da tre racconti della scrittrice canadese premio Nobel Alice Munro, In fuga, Silenzio e Tra poco. Una scelta dalle inevitabili influenze sullo stile del regista spagnolo, che abbandona il melò (o “almodramma”, com’è stato ribattezzato) per tentare la via di un cinema più asciutto, sobrio, trattenuto, riluttante nell’esprimere emozioni e nell’enfatizzare il mistero. Almodóvar torna ai temi a lui più cari – la malattia, la morte, la figura della madre, la trasformazione fisica, il dolore della perdita, il senso di colpa, i nodi del passato che vengono al pettine – ma rinuncia ai colori squillanti e pop (relegati al passato) e agli eccessi del suo cinema giovanile. Il dolore si fa più composto e controllato, la morte è accettata come un inevitabile fardello e i conflitti sembrano ricomporsi in una sofferenza condivisa. Resta però la sensazione di attendere per tutta la durata del film qualcosa che non arriva mai e di poter dire dei nuovi personaggi di Almodóvar ciò che lui afferma di quelli della Munro: alla fine del loro percorso ne sappiamo ancora meno di prima.