“La tartaruga rossa”: la recensione del primo cartoon europeo di Studio Ghibli

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La tortue rouge Francia/Belgio/Giappone, 2016 Regia Michaël Dudok de Wit Distribuzione Bim

Al cinema il 27-28-29 marzo

Il sessantatreenne regista olandese Michaël Dudok de Wit vinse nel 2001 un Oscar per il miglior corto d’animazione con Father and Daughter. La tartaruga rossa è il suo primo lungometraggio ed è anche il primo non giapponese commissionato dallo Studio Ghibli di Miyazaki. Lo stile occidentale dei personaggi e degli sfondi – tra Hergé e Moebius – disegnati a mano con acquerelli e carboncini si fonde molto bene con l’aspetto magico-spirituale della vita caro a un certo tipo di cinema orientale: il film non ha dialoghi, ma solo i suoni della natura a ribadire un concetto animista alla base dell’opera.

Si racconta di un naufrago che sopravvive a una furibonda tempesta e approda su un’isola deserta; nel tentativo reiterato di costruirsi una zattera, s’imbatte in una grossa testuggine dal carapace rossastro che puntualmente gli distrugge il mezzo di trasporto. Quando l’uomo trova modo di sopraffare l’animale, un’arcana metamorfosi avviene e il naufrago forma sull’isola una sua famiglia. Se La tartaruga rossa ha un limite (e se di limite si può parlare) è quello di una preordinata adesione a un lirismo a due facce: da un lato una poesia che conferisce una limpidezza capace di sintetizzare meravigliosamente le grandi domande della vita, dall’altro,  complice la musica (“voce” sensibile modulata in un crescendo di variazioni emotive) di Laurent Perez Del Mar, che asseconda fin troppo la ricercata eleganza delle immagini-disegno, una costruzione simbolica che in più di un momento (si pensi per esempio alla scena che riproduce gli effetti devastanti di uno tsunami congiunta all’abbandono dell’isola da parte del figlio del protagonista) accumula e accatasta metafore riducendone il loro rilevante valore.

Marcello Garofalo

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