WOMAN IN GOLD

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Id., GB/Usa, 2015 Regia Simon Curtis Interpreti Helen Mirren, Ryan Reynolds, Katie Holmes, Daniel Bruhl Distribuzione Eagle Durata 1h e 49’ 

In sala dal 

15 ottobre

La Seconda Guerra Mondiale è finita da sessant’anni e Maria Altmann (Helen Mirren), sopravvissuta all’orrore dell’Olocausto grazie alla fuga in America, vuole giustizia: ovvero (ri)ottenere il famigerato quadro Ritratto di Adele Bloch-Bauer, vidimato naturalmente da Gustav Klimt e raffigurante nientemeno che sua zia. L’opera, infatti, fu confiscata dai nazisti durante la razzia di Vienna, invece che andare, come da testamento, proprio a Maria. L’anziana, divenuta in tutto e per tutto statunitense, si affida così al giovane (ma promettente) avvocato Randy Schoenberg (Ryan Reynolds), con cui, per quasi dieci anni, sfiderà le istituzioni austriache per riavere ciò che le spetta.

Una storia incredibilmente vera quella di Woman in Gold, che ha il merito di illuminare un aspetto della Seconda Guerra Mondiale non sempre approfondito, eppure molto attuale. Parliamo di tutte quelle opere d’arte andate perse o, nel peggiore dei casi, distrutte. Oppure, come specificato dallo stesso regista del film, Simon Curtis, ancora prigioniere di qualche collezione privata o di qualche museo, in barba alla volontà sacra dei legittimi proprietari. Infatti il lungometraggio, letteralmente narrato a metà, tra il presente e il passato, fa del magnifico quadro di Gustav Klimt il protagonista assoluto, oggetto familiare per la Altmann ma pure simbolo di una nazione. Diverbio spinoso, insidioso e quanto mai cinematografico. Purtroppo però la pellicola di Curtis – prodotta dagli stessi di Philomena di Stephen Frears – è un elegante insieme di accenni che, tuttavia, non regalano quasi mai coinvolgimento ed emozioni, facendosi sorreggere dalla pur sempre eccezionale Helen Mirren, in questo caso accompagnata dagli ottimi Ryan Reynolds e Daniel Brühl. Dicevamo, poi, che Woman in Gold si alterna tra ieri e oggi, facendoci guardare il passato e il presente, in un filo temporale tenuto unito dal contestato quadro. E sono proprio le sequenze che ritraggono la tragedia dell’Olocausto quelle più riuscite, con una costruzione linguistica e scenica che portano avanti la necessaria e indispensabile memoria collettiva. Magari per continuare a ”liberare” quegli ultimi (e indimenticati) prigionieri del nazismo, prima che sia ancora una volta troppo tardi.

Damiano Panattoni