Vite sorprendentemente parallele di due registi-personaggio che a Cannes non si vedevano da tempo, Spike Lee e Lars von Trier, quasi coetanei (61 e 63 anni), tornati contemporaneamente, 34 e 32 anni dopo le loro prime apparizioni con L’elemento del crimine, il danese, e Lola darling, l’americano. Lee mancava da una vita (17 anni, ultimo film Jungle fever), von Trier da meno, 7 anni, in castigo dopo la conferenza stampa in cui spiegando l’uso della musica di Wagner in Melancholia, aveva detto di essere nazi, e di simpatizzare per Hitler. Espulso dal festival e da allora mai riammesso, perché “persona non grata”.
E la loro contemporanea riapparizione, alla guida di due film molto potenti, non poteva essere più esplosiva, da bravi dinamitardi del cinema. L’ultimo Spike joint come sono autodefiniti i suoi film, è un viaggio nel tempo fino agli anni Settanta, che più attuale non potrebbe essere. Racconta l’incredibile epopea di Ron Stallworth (John David Washington, ex campione di football americano, e figlio di Denzel), il primo poliziotto nero di Colorado Spring, che riuscì a infiltrarsi nell’organizzazione del Ku Klux Klan rispondendo a un annuncio e contattandola per telefono, per poi usare un alias bianco (Adam Driver, che a Cannes è anche in Don Chisciotte), per gli incontri di persona.
Sembra una storia inventata, invece è verissima, Ron esiste, e ha scritto il libro, da cui è tratto il film, il migliore di Spike Lee da almeno vent’anni. In poco più di due ore, viene ricostruito il clima degli anni Settanta con le battaglie per i diritti civili e le proteste contro la guerra del Vietnam, con uno stile che occhieggia al genere della blaxploitation, infarcendolo di citazioni pop che piaceranno molto a Quentin Tarantino (anche se i due si sonoispesso accapigliato sull’abuso della parola “nigger” e su chi dovrebbe avere il diritto di usarla). Meglio Shaft o Superfly? Meglio la sinuosa Pam Grier di Coffy o la atletica Tamara Dobson di Cleopatra Jones? Ma dove il film acquista all’improvviso l’attualità di un telegiornale, è nel finale, in cui vengono riproposti le strazianti immagini degli incidenti di Charlottesville, in Virginia, durante la manifestazione di protesta di suprematisti bianchi contro la rimozione della statua del generale Robert Lee, eroe dei confederati nella guerra di secessione. E si risentono le incredibili dichiarazioni assolutorie pronunciate dall’attuale presidente degli Stati Uniti. Nel film Lee spesso mette beffardamente in bocca ai razzisti degli Anni Settanta gli slogan che hanno aiutato Trump a vincere le elezioni: “America first, e “make America great again”. Ma nella conferenza stampa non ha voluto mai pronunciare il suo nome, preferendo chiamarlo a ripetizione con un eloquente “motherfucker”…
The house which Jack built, è invece una sintesi lunga due ore e mezzo, di tutti i temi dei film di Von Trier, che ci infila anche alcune clip dei suoi film in modo assolutamente autorefenziale. È la storia di un serial killer, Jack (un redivivo Matt Dillon), semplice ingegnere con velleità d’architetto. I fatti e alcuni delle immagini sono così eccessive che il festival ha rivolto un avvertimento a pubblico e giornalisti. Ma chi conosceva il regista di Dogville, Antichrist e Nymphomaniac, non ne aveva bisogno.
Se Lee è un militante politico, von Trier è un militante filosofico, che non ha paura di essere definito sadico e amorale, e ama usare un umorismo nero e perverso. Il suo serial killer straparla e sragiona su tutto cercando una luce nel buio della vita e una spiegazione artistica dell’esistenza. E ha un disturbo ossessivo compulsivo per la pulizia che lo costringe a cancellare immediatamente la più piccola traccia di sangue. Uccidere non era la sua missione, ma lo è diventata all’improvviso, come dimostrano i capitoli esplicativi dei suoi omicidi presentati come “5 incidenti”, (la prima vittima è Uma Thurman), più un epilogo “catartico”. Ci sono dei paradossi un po’ alla Godard di Le livre d’image, come la constatazione che attorno alla quercia preferita di Goethe, è stato costruito il campo di sterminio di Buchenwald. E appare perfino “il diavolo, probabilmente,” che ha la faccia di Bruno Ganz, guarda un po’ il migliore dei recenti Hitler dello schermo. E si fa un gran parlare di Albert Speer, l’architetto del nazismo. A differenza di Lee, Von Trier non ha fatto conferenze stampa, preferendo lasciare il suo film, nudo, crudo, e sanguinolento, alla interpretazione delle masse.
Marco Giovannini