Dieci film. Dieci film con lo stesso personaggio. Succedeva con James Bond, Fantomas o con la Pantera Rosa. In Italia è raro, molto. Totò, poi Trinità, poi poco altro. Specie in tempi come questi, tempi che divorano, come il Conte Ugolino, la testa dei figli dell’immaginario, specialmente quello cinematografico.
Negli anni Sessanta era più facile, con Franco e Ciccio o Pierino. C’era solo il cinema e una televisione intelligente ma formale. Ora tutto è dappertutto e tutto è frenetico, ci si stufa di ogni cosa e di ogni volto come bambini che hanno bisogno di giocattoli nuovi. In televisione la serializzazione è d’obbligo ma è molto difficile, eccetto forse Perry Mason o Derrick, che si arrivi ad attraversare venti anni e più di costumi e gusti del pubblico. Invece Fantozzi lo ha fatto e lo ha fatto sul grande schermo. Lo ha fatto invitando la gente a uscire di casa, prendere la macchina, acquistare un biglietto e sedersi al buio, senza caramelle e telefoni cellulari. Tutto più difficile, terribilmente più difficile. Il primo film è del 1975, quando la televisione era in bianco e nero, c’erano ancora Carosello e la Dc, le seconde visioni e le nuvole di fumo al cinema, che si apriva il tetto per farle uscire. L’ultimo è a cavallo di un nuovo millennio. In mezzo, di tutto. L’arrivo dei computer e la caduta del muro di Berlino, il femminismo e l’ambientalismo. Tutto. E Fantozzi in mezzo, plausibile. Perché Fantozzi è un personaggio senza tempo. È un tipo da slapstick, potrebbe anche solo parlare col linguaggio del corpo. Il corpo sempre più grande, alla Fatty Arbuckle, di Paolo Villaggio.
Il senso di sconfitta, rassegnazione, umiliazione perenne che il body language del ragionier Ugo trasmette arriva direttamente al cuore e al cervello. La sua è una storia di sconfitto perenne, è una storia di alienazione da travet e di sfruttamento, una storia di prepotenza permanente dei capi, di ogni ordine e grado. È una saga in difesa dei più deboli, resi corpo non in un operaio come nel grande cinema italiano del dopoguerra ma nella nuova figura sociale del boom, l’impiegato. Fantozzi ha in sé un messaggio antiautoritario e aideologico. La battuta liberatoria su La corazzata Potëmkin è uno dei pochi momenti di consenso popolare e di successo del ragioniere. Il suo linguaggio è entrato, per non uscirne più, nel linguaggio comune e il suo personaggio è cresciuto al punto di diventare la definizione di un ruolo sociale, di uno stato d’animo, di un modo di essere.
I suoi film sono stati assolutamente discontinui. Bellissimo il primo, tratto da un libro davvero esilarante, e poi nei dieci episodi c’è di tutto: cose geniali e volgarità insopportabili, poesia e trash. Molti film sono stati scritti, con Villaggio e Parenti, da quei due geni di Benvenuti e De Bernardi e la loro mano, anche se alterna nei risultati, si sente. Villaggio è un metapersonaggio, fuori dal tempo e fuori persino da se stesso. Fantozzi è un tipo italiano, buono e meschino, vile e capace di improvvisi colpi di reni. È surreale, nonostante ne esistano milioni. È grottesco, nonostante l’iconografia della vita di quelli come lui sia ripetitiva e monotona. Fantozzi è il suo cappello, i suoi pantaloni corti, la sua giacca sempre più stretta. I personaggi grandi sono sempre riconoscibili da pochi segni. La memoria li trattiene, con affetto e riconoscenza, aggrappandosi a un cappello, un paltò, un bastone. Così, solo per non dimenticare che sono irreali, e infatti vestono come noi, in un certo tempo della nostra vita, abbiamo vestito.